PROTESTA, UNA DICHIARAZIONE PUBBLICA CHE DOBBIAMO TENERCI CARA

Si protesta per attirare l’attenzione. L’affermazione può suonare banale, ma essere costretti a sottolineare le banalità sembra la malattia di questo tempo. Quando qualcuno sfila per strada, ostacolando il traffico e la normale vita quotidiana, lo fa perché non considera affatto «normale» questa vita e vorrebbe cambiarla e se strilla slogan non è perché non gli piace parlare a bassa voce. Cominciamo da quello che non è. La protesta non è mai un affare privato. Lo sono il dolore e la tristezza, può esserlo la malinconica disillusione, il sapore amaro della sconfitta. La protesta no, è sempre un atto pubblico. Perché sia efficace è necessario che sia conosciuta dal pubblico più vasto possibile. E per raggiungerlo esista una vasta gamma di strumenti che cambiano a seconda del soggetto che la propone, un individuo, una folla di individui, uno Stato. La forza nell’origine. Protestare è un’eredità del tardo latino protestari, verbo composto derivato da testar i «attestare», rafforzato dal prefisso «pro», che ha il compito di estenderne il significato. Pensate a verbi dalla struttura simile come promuovere o progettare. Il nostro protestare indica quindi una «attestazione pubblica», dichiarata, espressa con fermezza. Sia che si tratti di sostenere una affermazione sia che voglia contrastarla o negarla. Le unisce una profonda convinzione. Si protesta contro una legge che si considera sbagliata o dannosa per la collettività, ma un accusato protesta la propria innocenza. La differenza dei modi. La protesta è sempre una dichiarazione esplicita ma può vestire abiti molto diversi. Si chiama «nota di protesta» nel diritto internazionale la dichiarazione ufficiale con cui uno Stato afferma l’illegittimità del comportamento di un altro Stato. Ed è ovviamente uno strumento diplomatico di pressione. Se un ministro si sente danneggiato da un articolo di giornale, non è infrequente che faccia precedere la sua nota di replica da una telefonata di protesta al direttore. Quando gli studenti di una scuola vogliono contestare l’insufficienza dei programmi o lo stato dei locali, possono organizzare un sit-in di protesta che interrompe il normale svolgimento delle lezioni. Sono tre tipi di protesta, ma è evidente che ambasciatori, ministri e studenti non hanno la stessa possibilità di farsi ascoltare. Per questo è possibile che gli studenti durante il sit-in, alzino la voce con qualche slogan e magari si mettano a cantare per attirare l‘attenzione. Ambasciatori e ministri non ne hanno bisogno. Senza infingimenti. Chi protesta vuole che propria voce venga ascoltata. Meno è importante o noto il soggetto che propone la posizione di dissenso più sarà determinato a trovare il sistema migliore perché la sua posizione non si perda nel vuoto. Quindi dobbiamo aspettarci che chi protesta crei una situazione di disagio. Anzi, dobbiamo mettere nel conto che chi protesta è determinato ad essere fastidioso. Se un gruppo di ragazzi versa vernice lavabile su un monumento o sulla facciata di un palazzo, per scuotere la monumentale indifferenza delle istituzioni sulla tragedia climatica, è lecito biasimarli e criticarli. Perfino nello stesso mondo ambientalista c’è chi ritiene queste azioni eccessive e controproducenti. Sono fastidiosi? Sì, ed è esattamente quello che si propongono, mentre scorre l’inverno più caldo della storia, i fenomeni climatici estremi sono diventati quotidiani e le conseguenze di una guerra sciagurata in Europa fanno riaprire le miniere di carbone. È anche una responsabilità generazionale. I più indignati hanno sempre qualche decade più di loro, un passato che fanno fatica ad analizzare e un carico di responsabilità spaventoso. Noi, anche chi scrive fa parte di questo gruppo, per incapacità e indifferenza, stiamo lasciando ai nostri figli un mondo in condizioni indecenti. Se pensiamo di processare la protesta, ricordiamo che i veri imputati non sono loro. Lo strumento del lavoro. Una delle forme più note di protesta è lo sciopero. Una astensione volontaria dal lavoro che ha più di tremila anni di storia. Il primo sciopero di cui si ha notizia avvenne in Egitto sotto il regno del faraone Ramses III, intorno al 1050 a. C. (E andateci al Museo Egizio di Torino, ospita un prezioso papiro che racconta tutta la storia). Se la storia dello sciopero è antica, quella del «diritto» a scioperare è recentissima e meriterà una riflessione a parte. Oggi ci basterà ricordare che in Italia è stato considerato un reato fino al 1889, che il fascismo lo ha duramente represso e che è un diritto riconosciuto dall’articolo 40 della Costituzione solo dal 1947. Una protesta particolare. Se il primo sciopero del lavoro lo dobbiamo agli operai in Egitto, è nel 411 a.C., ad Atene che lo sciopero rompe ogni argine diventando un archetipo della protesta. Nella commedia Lisistrata, Aristofane ci racconta la rivolta delle donne ateniesi e spartane contro la guerra del Peloponneso che teneva i loro uomini lontano da casa. Per convincerli Lisistrata e le sue compagne adottarono una strategia che avrebbe fatto epoca: il rifiuto di qualsiasi rapporto sessuale fino a quando non avessero raggiunto un accordo. Quella di Aristofane non è solo la prima commedia pacifista che conosciamo, è anche l’occasione in cui all’immagine femminile viene riconosciuto un carattere e una personalità in una società come quella greca del V secolo dove le donne non erano ammesse neanche nei luoghi pubblici e certamente non potevano dirsi libere (A proposito, alla fine Lisistrata e compagne vincono. Provate a leggerlo Aristofane, magari mentre andate a Torino al Museo Egizio). Un maschile antipatico. Se a questo punto ci siamo fatti un’idea della protesta, possiamo fare una piccola digressione sul maschile di questa parola, utilizzato nella lingua italiana per un particolare significato, non troppo simpatico. Siamo sempre nell’ambito delle attestazioni pubbliche ma in questo caso con il protesto si indica l’accertamento di un mancato pagamento. È un pubblico ufficiale a stabilire questo debito insoluto, trasformando il debitore in un «protestato» qualifica che gli renderà molto difficile ottenere altri crediti e della quale potrà liberarsi non solo pagando tutto il dovuto e gli interessi maturati, ma dopo un pronunciamento del tribunale. Le regole del vivere insieme. Abbiamo capito che la protesta fa parte della nostra vita in comunità. Soprattutto perché la nostra è una comunità libera, regolata da una carta costituzionale che garantisce ad ognuno di noi la libertà di espressione. Nelle dittature e nei regimi autoritari è molto difficile protestare. Lo sappiamo bene anche noi in Italia che abbiamo avuto il ventennio di regime fascista in cui chi osava protestare e veniva arrestato e processato. Oggi, con i soli limiti rappresentati dalla libertà altrui, protestare non solo è possibile, ma nessuno può proibirlo. E anche se stiamo perdendo la capacità di affrontare un confronto anche duro e aspro, di fronte ad una protesta, indipendentemente dai motivi, dovremmo essere sempre un po’ contenti. Perché rappresenta un’espressione di libertà, che è come l’aria. Comprendiamo quanto sia indispensabile solo quando manca.

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