KOSOVO, TRA LE RADICI AVVELENATE DELLA POLVERIERA: «È L’ORA DELLA RIVINCITA»

DAL NOSTRO INVIATO ZVECAN - «Noi non facciamo nessuna guerra, perché il Kosovo è nostro, e nessuno fa la guerra a casa sua. L’Italia potrebbe mai mettersi a combattere con la Sardegna o il Piemonte?»

Sul muro esterno del circolo ricreativo, un Vladimir Putin invero poco somigliante all’originale alza il bicchiere brindando alle persone sedute ai tavoli, che a loro volta celebrano gli scontri di lunedì e forse preparano un seguito. Tra loro c’è anche Jovan, ex ufficiale dell’esercito jugoslavo, che pone domande con un tono così autoritario da sconsigliare qualunque risposta.

Sul lato opposto dell’incrocio, un gruppo di giovani con magliette nere come quasi tutti i presenti aspetta di ricevere ordini sotto al murales che celebra il generale Ratko Mladic, altrimenti detto il boia di Srebrenica. In fondo alla strada centrale decine di agenti della Polizia militare kosovara sono schierate a protezione del municipio. La barriera di filo spinato che li separa dai manifestanti serbi non dissimula la sensazione di un assedio nei loro confronti. Sul selciato ci sono ancora le tracce lasciate dalle molotov, mentre le auto dai vetri sfondati sono state ricoperte di Z a vernice nera e vengono esposte come trofei.

Nel profondo Kosovo del nord, oltre Mitrovica e all’ombra della montagna chiamata dente del dragone sulla quale ci sono i resti di una antica fortezza medievale serba, Zvecan sembra davvero un mondo capovolto. Sul viale che conduce in centro quasi ogni villetta espone la bandiera serba e quella russa. Le Z sui muri non si contano, con molte variazioni inneggianti alla Brigata Wagner, nel caso il concetto non fosse chiaro ai passanti. Al bar Camel si entra dopo aver strofinato i piedi su uno zerbino che raffigura la bandiera americana e la faccia di Bill Clinton. Abbiamo girato ore senza trovare un abitante di etnia albanese, almeno uno dei seicento temerari che si sono presentati a votare il nuovo sindaco Ilir Peci, mentre gli altri sedicimila loro concittadini, in maggioranza serbi, hanno disertato l’elezione, come in altre tre comuni dell’area, contestandone poi la legittimità.

«Sarebbe più efficace chiuderli tutti dentro» dice il militare norvegese del contingente Nato che invece sorveglia con molta discrezione gli ingressi in città. «Tanto, non cambieranno mai idea». Nonostante l’annuncio dell’invio di altri settecento soldati che si aggiungeranno agli altri quattromila già presenti, il rapporto di forza sembra impari. A Zvecan, che un tempo fu la capitale mineraria della Jugoslavia, la storia è un dettaglio. «Questo posto è Serbia, non importa cosa stabilisce la comunità internazionale» taglia corto Jovan, facendo alzare i calici dei suoi amici. Da una foto appoggiata sullo specchio dietro al bancone, Slobodan Milosevic sorride compiaciuto.

Il giorno dopo l’attacco che ha ferito 34 militari, tra i quali quattordici soldati italiani, due ancora ricoverati, gli altri stanno bene, l’atmosfera rimane intrisa di violenza. Gli sguardi dei nazionalisti serbi sono carichi di rancore e di attesa. «Non avremo mai un sindaco albanese» dice Lazlo Gajovic, un trentenne dai bicipiti enormi che però è appena arrivato da Belgrado, e di questi posti non conosce nulla e nessuno.

Alle 14 una Jeep con la bandiera dell’Unione europea sulla portiera finisce per sbaglio al centro dell’incrocio e viene subissata prima di urla, poi di pietre e calcinacci lanciati da ogni direzione. Mezz’ora dopo, qualche «anziano» che dal circolo ricreativo gestisce la folla, si spazientisce. Quattro giornalisti kosovari rei di avere posto domande sgradite vengono aggrediti a calci e pugni. Le loro telecamere finiscono in pezzi. Sotto agli occhi della Polizia militare, che finge di non vedere.

All’improvviso, la folla si raduna intorno a un uomo. Srdjan Milosavljevic dovrebbe rappresentare la voce della ragione. È stato sindaco di Zvecan e presidente della municipalità. Il suo messaggio volto a calmare gli animi è pieno di ambiguità. Abbiamo ragione su tutto e da sempre, dice. «Ma tocca comunque a noi salvare la pace». Al bel proposito appena enunciato, fa seguire però l’ordine di una mobilitazione a orario continuato, dalle sette del mattino alle 16, alla quale oggi si aggiungeranno molti sostenitori in arrivo dalla capitale serba. «Per impedire l’ennesimo sfregio alla nostra storia».

Nessuno parla della richiesta di maggiore autonomia rispetto allo Stato centrale, il pomo della discordia che ha portato al boicottaggio del voto, secondo una versione ufficiale che fa comodo a tutti. Magari fosse davvero così. In questa estrema enclave serba del Kosovo, la politica non ha diritto d’asilo. Tutti si riempiono la bocca con le ragioni del sangue, della razza, dell’odio verso gli altri. «Grazie alla Russia, l’unico Paese che capisce le nostre ragioni, stiamo finalmente per prenderci la rivincita con gli albanesi e con voi europei» spiega il giovane Milan, che sostiene di studiare giurisprudenza.

Gli unici due cittadini onorari di Zvecan sono Vladimir Putin e il tennista Novak Djokovic, che in quanto a nazionalismo non scherza. Su molte magliette è stampata la scritta Z3, o viceversa, che unisce il simbolo dell’invasione in Ucraina al saluto dei nazionalisti serbi. Appena fuori da Zvecan, troviamo una decina di auto con targa della Repubblica kosovara distrutte o bruciate. Sulla fiancata annerita di una Opel Astra qualcuno ha scritto che «Il Kosovo non esiste».

2023-05-30T21:01:54Z dg43tfdfdgfd