UN TRIBUNALE DELLE DONNE PER LE DONNE AFGHANE: CERCASI GIUSTIZIA

Parisa, Mahoba, Sakina, Madina: donne che hanno lasciato in tutta fretta l'Afghanistan nelle ore concitate della presa di Kabul da parte dei taleban (agosto 2021), e, arrivate in Italia, faticano a trovare una nuova vita. Le loro testimonianze, a tratti drammatiche fino alle lacrime, sono state raccolte sabato scorso in un lungo e intenso pomeriggio alla Casa internazionale delle donne di Roma. La prima seduta del "Tribunale delle donne per i diritti delle donne migranti" è stata una occasione per far parlare loro, le protagoniste, ascoltare il loro dolore e i loro sogni. Che non devono restare tali, però: ne va della civiltà dell'intero popolo italiano. «Sono una chirurga, ho rinunciato a tutto pur di studiare» - ha raccontato Mahoba, profuga in Iran da bambina, ragazza piena di speranze durante il ventennio "filo occidentale" dell'Afghanistan. «Sono scappata da Kabul solo con ciò che indossavo. All'arrivo mi dissero che in Italia c'era molto bisogno di medici, che avrei avuto buone possibilità di lavorare. Non è stato così. Oggi ci concedono di fare la badante o al massimo mediatori culturali. Ma io non voglio buttare via tutti i miei obiettivi. Se non riconoscono le mie competenze di medico, la mia laurea, la mia esperienza, non riconoscono la mia dignità».

Altre profughe hanno sottolineato con disperazione l'impossibilità di riunirsi con un figlio appena maggiorenne, perché la legge consente di far arrivare solo i minori, o con una madre, una sorella. Altre donne hanno evidenziato le difficoltà di essere donne in migrazione, in un Paese molto accogliente ma con tante difficoltà burocratiche da affrontare ogni giorno: il riconoscimento dei titoli di studio, l'inserimento scolastico, la ricerca di un lavoro adeguato. La frattura della loro vita tarda a ricomporsi e questo genera un dolore sordo, che si trasforma in lacrime liberatorie durante il racconto. Una giovane donna ha confessato di sentirsi in debito verso chi è rimasto in Afghanistan: «Noi siamo in salvo, ma non siamo nulla. Loro invece sono in pericolo ma nonostante questo continuano a lottare, scendono in piazza, resistono. A volte rimpiango di non essere rimasta con loro, almeno la mia vita avrebbe un senso».

Il Tribunale delle donne non ha una giuria, ma una Commissione di ascolto, composte da avvocate, docenti di diritto, giuriste, esponenti politiche (presente anche la giornalista di Avvenire): l'obiettivo è redigere, a breve, un "verdetto" utile alle istituzioni (Comuni, Regione, Parlamento, ognuno per le proprie competenze) per sostenere i diritti delle donne in migrazione. Una sorta di giustizia riparativa per quanto hanno subìto, che possa garantire loro il riconoscimento dei titoli di studio, un lavoro consono alla loro preparazione, ricongiungimenti familiari più estesi.

Il progetto del Tribunale delle donne è stato sostenuto dall'8 per mille delle Chiese Valdesi e proposto dalla Casa Internazionale delle donne, con Differenza Donna e Le Sconfinate e l'adesione di diverse associazioni, tra le quali Nove onlus. Proprio la vicepresidente della onlus, Arianna Briganti, ha voluto sottolineare, a commento dell'iniziativa, come «l’inserimento occupazione, rimane uno dei problemi di più difficile risoluzione. Anche per le donne straniere, spesso arrivate in Italia senza i mariti ma con i figli minori, è quasi impossibile lavorare e al tempo stesso prendersi cura dei bambini. Inoltre l’inserimento professionale delle donne migranti viene rallentato se non impedito dal mancato riconoscimento accademico dei titoli di studio»

Le donne straniere in Italia, ha notato Briganti, passano dalla felicità di essere accolti in un Paese che rispetta i loro diritti fondamentali «alla delusione di trovarsi davanti a delle barriere istituzionali e culturali che sembrano insormontabili».

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