ABDON PAMICH: «CON LE SCARPE DA MARCIATORE HO FATTO 3 VOLTE IL GIRO DEL MONDO. SCHWAZER HA SBAGLIATO E PAGATO, POI PERò LO HANNO INCASTRATO»

Sognava di solcare i mari come comandante di una nave. Invece ha macinato, marciando, migliaia e migliaia di chilometri sulla terra. «Credo di aver completato almeno l’equivalente di tre volte la lunghezza della circonferenza del globo» dice Abdon Pamich, olimpionico a Tokyo 1964 e bronzo nel 1960 a Roma, virtuoso del «tacco e punta», fuoriclasse in una disciplina di sacrificio. La sua storia comincia con un ragazzino che scappa da Fiume. Una marcia pure quella. Verso la libertà.

Settembre 1947: Abdon Pamich fugge in calzoncini, maglietta e scarpe da ginnastica con Giovanni, suo fratello. «L’aria era diventata irrespirabile. Partimmo alle 2 di notte, arrivammo in treno al confine, poi diventammo clandestini. Superammo la frontiera e raggiungemmo Trieste alle 10 del mattino».

Mamma e papà non erano con voi? «Mio padre era già a Milano. Era dirigente d’azienda, aveva un amico nella filiale locale. Ma l’amico non l’aiutò, quindi finimmo al centro di smistamento di Udine: ci spedirono a Novara, dove passammo un anno in una caserma diroccata. Papà si sistemò infine a Genova, ci raggiunse la mamma e per un po’ non ci spostammo più. Le sofferenze ci hanno temprato».

Fiume è rimasta nel cuore. «La nostalgia è sempre stata forte. Fra noi e un emigrante c’è una bella differenza: se un emigrante torna a casa, ritrova più o meno quello che aveva lasciato. Da noi, invece, era cambiata l’anima della città: altra lingua, altra gente. La Fiume che ricordo è la Fiume della memoria».

Ci torna spesso? «Da quando sono vedovo ci vado di frequente. Qualcuno parla ancora il nostro dialetto, c’è una minoranza che tenta di stare unita».

Consegnare quelle terre a Tito è stato un tradimento? «Grida vendetta soprattutto il Patto di Osimo, firmato 20 anni dopo: non eravamo obbligati a cedere la zona B dopo così tanto tempo».

Il dramma delle foibe... «Tentano di cancellarlo, ma è impossibile farlo. Anche se c’è molta gente in malafede, la tragedia rimane. Tanto quanto quella della Shoah».

La marcia è stata un modo per dare sfogo a una voglia di liberazione? « Con la famiglia frequentavo le montagne. Già a 12 anni in un giorno camminavo per 50 chilometri. Pure oggi, a 90 anni compiuti, mi muovo parecchio: guai a fermarsi».

Sembra che la marcia sia una caratteristica degli italiani. «Non so se è nel nostro Dna, ma abbiamo una tradizione. Fernando Altimani ai Giochi 1912 vinse il bronzo e nei 10 km su pista stabilì un record che io battei 50 anni dopo. Poi ci furono Ugo Frigerio, tre ori e un bronzo ai Giochi, e Giuseppe Dordoni, olimpionico a Helsinki 1952. Quindi sono arrivato io. E, dopo di me, altri campioni».

La marcia è la colonna sonora della sua vita? «Vidi una 100 chilometri a Novara: quel giorno segnò una svolta. A Fiume erano popolari pugilato, nuoto e canottaggio, mentre la marcia non era diffusa. Ho mai pensato di dedicarmi alla corsa? No, ma l’ho praticata».

Non dimostra la sua età. Qual è il segreto? «Penso che la genetica influisca: siamo gente di confine, dentro abbiamo di tutto e queste caratteristiche emergono».

Dordoni è stato un rivale o anche un amico? «Prima un rivale. Era abituato a vincere facilmente, quando sono arrivato io ha dovuto rivedere la preparazione. Poi è diventato c.t., ha seguito la mia gara di Tokyo lungo la strada. Io ero allenato da Giuseppe Malaspina, ex marciatore: saltò Tokyo 1944 perché l’edizione fu annullata la guerra. L’ho vendicato vent’anni dopo».

Abdon, nome particolare. «È persiano: Abdon e Sennes, o Sennen, sono principi persiani martirizzati a Roma. Non ho mai saputo se l’abbia scelto mamma o papà, non l’ho mai chiesto. E da ragazzino un po’ mi vergognavo di chiamarmi così: dicevo che il mio nome era Aldo».

Un palmarès strepitoso, 40 volte campione italiano, record su record. Non pensa «ho fatto grandi cose»? «No, in fondo credo che sia stato tutto normale. Anche l’oro di Tokyo: a 100 metri dal traguardo pensai che a Roma le cose sarebbero andate diversamente se, anziché seguire la federazione, fossi rimasto con il mio allenatore. Per quel bronzo sono forse più stizzito oggi che all’epoca».

Pure in Giappone rischiò di non vincere. «L’intestino fece le bizze e mi ricordai di un Europeo perso per un guaio analogo: dopo lo stop, mi si appesantirono le gambe e non rimontai. Invece in Giappone mi ripresi, acciuffai l’inglese che mi aveva scavalcato, infine dissi a me stesso: “Ora vai”. Senza la crisi avrei vinto in modo più netto».

Tokyo porta bene alla marcia italiana: nel 2021 due ori olimpici con Massimo Stano e Antonella Palmisano. Si è emozionato? «Sì, anche se non sono uno che esterna la gioia. Peraltro a quelli della mia generazione la marcia di oggi pare tutt’altra specialità. Per andare a certe velocità devi essere... un bel corridore. E siamo all’assurdo che la squalifica viene data ad occhio. Ho seguito uno start di massa nel quale il giudice dopo 100 metri già sanzionava: ma come faceva a vedere in quella bolgia?»

Come valuta la vicenda di doping di Alex Schwazer? « Alex ha sbagliato, ha pagato ed è ripartito. Ma l’hanno voluto incastrare: c’è una documentazione che lo prova».

Lei ha mai ricevuto proposte strane? «Viaggiai verso Melbourne con i ciclisti. Un massaggiatore mi disse: “Ti do una cosa che ti fa bene”. Il loro medico me lo ripeteva qua e là. Ovviamente ignorai: se avessi fatto come certi colleghi sovietici forse non sarei vivo».

Ha pensato ad altri sport? «Mio fratello a Genova si dedicò anche al canottaggio. Lo seguii: quelli del Sampierdarena ci volevano per il due senza. Non se ne fece nulla perché Giovanni era iscritto a Medicina e temevo non garantisse continuità. Volevo darmi alla boxe, ho sempre sciato e a calcio giocavo in porta».

È descrivibile la sofferenza di un marciatore? «Ho fatto la Roma-Castelgandolfo e il giro di Roma sui sanpietrini: perdevo otto unghie, salvavo quelle dei mignoli. E le vesciche erano tremende».

Fiume, Genova: c’è sempre il mare di mezzo. «Volevo fare l’Istituto Nautico, per diventare capitano e attraversare l’Atlantico. A Genova, a 15 anni, avrei potuto imbarcarmi come mozzo o cameriere grazie a un documento speciale: avrei potuto fare carriera senza passare dalla scuola. Ma mio padre mi impose di studiare. Mi iscrissi all’istituto per geometri a Novara, poi ho lavorato alla Esso».

La marcia è una metafora della vita? «C’è un detto: si comincia a fare una gara e si è bambini; ma quando si arriva, si è vecchi. Ecco, una 100 chilometri descrive bene l’arco di un’esistenza».

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