MAKKA E L’OMICIDIO DEL PADRE: «DIFENDEVO LA MAMMA DA PICCOLA. OGGI LA MIA FAMIGLIA è LIBERA»

È come aver vissuto con l’acqua alla gola ogni santo giorno, per anni. Paura di muoversi, paura di annegare. Paura. Lui tornava a casa e se tirava una brutta aria. Le giornate peggiori finivano con urla, insulti e sua madre segnata da qualche livido. Quelle buone — rare — portavano l’illusione che tutto fosse cambiato, finalmente. Basta violenza. Basta sopraffazione. Fino alla scenata, al ceffone o al pugno successivo.

Il coltello

Come si fa con i vecchi vestiti, con gli oggetti in cantina o in soffitta, anche i dispiaceri, lo sgomento e l’infelicità si possono accumulare. Makka ne aveva piena la vita quando il e ha ucciso suo padre dopo l’ennesima lite furibonda fra lui e la madre e dopo che lui aveva promesso via messaggio: «Ti ammazzo». Dalla comunità che l’ha accolta dopo i fatti (dove si trova in arresto) Makka fa sapere che «mi dispiace molto per quello che è successo e sono sinceramente pentita di averlo fatto». Ma dice anche che «non ho avuto scelta» e che «se penso alla mia famiglia, oggi, penso a una famiglia libera».

Il suo avvocato, Massimiliano Sfolcini, ci va cauto ogni volta che discute con lei del futuro. «Stiamo parlando di un omicidio», le ripete quando lei insiste: «Che succederà adesso? Che ne sarà di me?» La risposta dipende molto dalla sorte giudiziaria, ancora tutta da scrivere. Intanto il suo passato è già in gran parte scritto: nei verbali d’interrogatorio del pubblico ministero e del giudice delle indagini preliminari, negli appunti presi da lei stessa poco prima dell’omicidio ma anche nel fiume di parole con le quali accoglie il suo legale ogni volta che si vedono. «A volte prende mia madre, la trascina davanti ai miei fratelli maschi e insegna loro come si tratta una donna», aveva annotato Makka su un foglietto finito negli atti di indagine. E ancora: «Chi troverà questo scritto capirà, o io sarò morta o sarà morto lui». Appunti di disperazione scritti quel pomeriggio, mentre sua madre — al lavoro — le girava i messaggi del marito che la minacciava di morte. Non stava scrivendo un diario, Makka. Le sue erano parole annotate su foglietti che avevano come intestazione: «Per i carabinieri».

La furia del padre

Makka sapeva che quel giorno suo padre era più furioso di sempre e voleva affrontarlo. Ma voleva che rimanessero prove della sua violenza, se fosse successo il peggio e lei fosse morta. Così quando sua madre è tornata a casa e hanno cominciato a litigare urlando «mi sono messa dietro la porta a registrare perché volevo procurami delle prove», ha detto lei stessa al gip. «Avevo anche pensato di denunciarlo senza registrazione ma avevo paura di non essere creduta». Racconta di un altro pestaggio, a Natale: «Io non ero in casa, me lo disse mia madre. Lui la picchiò davanti al mio fratellino e gli disse che anche lui si sarebbe dovuto comportare così una volta sposato. Quella volta vidi un grosso livido sulla fronte di mamma. Ho una foto di quel livido». Altre prove. E ancora: «I messaggi con le minacce che mio padre mandava a mia madre e che lei girava a me, io li giravo a mia volta a una mia amica perché lui controllava il telefono e io volevo conservarne le tracce senza allarmarlo».

Il foglietto e i fratelli

Altro dettaglio: «Quando picchiava, mio padre usava la tecnica del pugno forte sulla bocca dello stomaco che impedisce di respirare...». Inoltre «sul foglietto parlavo dei miei fratelli perché temevo che si sarebbero comportati come mio padre, dato che mio padre era come mio nonno paterno, anche lui molto violento con mia nonna». Con il pubblico ministero che l’ha interrogata la sera dell’omicidio Makka ha parlato dei suoi anni in Cecenia, il suo Paese di origine. La fuga, il passaggio in Finlandia e poi in Italia con l’asilo politico, prima nell’Alessandrino e infine a Nizza Monferrato, nell’Astigiano. «Ho 18 anni», dice, «ricordo litigi da quand’ero piccola. Mio padre mi colpiva solo se mi mettevo fra lui e mia madre (...) alcune volte mi ha colpita a scopo educativo (...) Ho iniziato a tentare di proteggere mia madre dai 12/13 anni...». Dei momenti più tragici descrive un dettaglio che spiega la reazione di suo padre nei suoi confronti. L’uomo aveva le mani al collo della moglie «allora io l’ho colpito con due pugni. Era la prima volta... Lui si è arrabbiato perché le donne non possono picchiare gli uomini... era sbalordito. È venuto verso di me, mi ha preso per i capelli, mi ha buttata per terra, mi ha colpito con due pugni. Mia madre tentava di allontanarlo da me... A quel punto ho preso il coltello...». Questa storia finisce con quel padre che muore, con «mia madre scioccata» e «io che non ero in me», come dice Makka. Anzi, no. La fine la scriveranno i giudici, fra reato, aggravanti, attenuanti e — sullo sfondo — tutto il cumulo di male visto e vissuto che ha armato la mano di Makka.

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