MARCORè: IO, UN ANTIEROE

BARI Neri Marcorè è uno strano tipo. Discreto, gentile, introverso, si affermò da ragazzo per come graffiava i politici nelle imitazioni. Oggi si rispecchia «completamente» in Walter Vismara, il ragioniere al centro del suo esordio da regista. Zamora, dal 4 aprile nelle sale, è tratto dal romanzo (sta per essere ripubblicato) di Roberto Perrone il grande giornalista sportivo del Corriere della Sera che univa il piacere della scrittura a quello della tavola, scomparso nel 2023 a soli 65 anni.

Vismara è costretto a inventarsi una passione che non ha, il calcio, come vendetta per una passione che sta per nascere ma poi svanisce, un tumulto dell’anima. Ma non riesce a parare tutti i rimpianti, che sono una brutta bestia.

Perché si rivede nel protagonista?

«Anch’io sono un provinciale che si è trasferito in una grande città. E mi riconosco nella timidezza e negli impacci di Vismara (l’attore è Alberto Paradossi). Il quale conduce una vita monotona, senza sorprese, ragioniere nell’animo prima ancora che di professione. Improvvisamente, suo malgrado, si ritrova catapultato in un’azienda di Milano, al servizio del cavalier Tosetto impersonato da Giovanni Storti, che impone partite di calcio ai dipendenti, tra scapoli e ammogliati».

Vismara non sa giocare.

«Viene deriso dai colleghi, preso di mira, finisce in porta. Lo hanno soprannominato come sfottò Zamora, il nome del leggendario portiere spagnolo degli Anni Trenta. Gli fanno gol a valanga. Decide di andare a lezione da un ex portiere, finito male e mollato da tutti, che impersono io. I due cercano di salvarsi l’un l’altro. Vismara si vendicherà, dell’antagonista che lo prende in giro e della ragazza da cui si sente tradito (Marta Gastini».

Il portiere di calcio, mestiere ingrato.

«Un miracolo e diventi eroe, un errore e ti crocifiggono. Ma il pallone è un pretesto. È un romanzo di formazione su un giovane uomo che ha paura di mettersi in gioco e fa i conti con se stesso. La storia con la segretaria non nasce per colpa dei suoi pregiudizi. Le donne, in questa storia ambientata nella Milano degli Anni 60, sono libere, indipendenti, moderne».

Qual è la parabola del ragioniere?

«Quello che mi premeva è che Vismara facesse tesoro di quella delusione, senza crogiolarsi. Quel giovane uomo ferito riparte da una lezione che la vita gli dà per non ricommettere lo stesso errore. C’è la ragazza che gli dice che poteva nascere qualcosa di bello, ma non lo sapremo mai».

Il film ha un tocco morbido che ricorda Pupi Avati.

«Beh, magari l’avessi come lui. Ma certo mi ha influenzato molto. È il maestro che mi ha scoperto. Come regista sul set non ho voluto nascondermi dietro al monitor ma stare accanto agli attori, proprio come fa Pupi Avati».

Lei in cosa è rimasto provinciale?

«Nello sguardo. Chi viene da un piccolo paese mantiene lo stupore negli occhi, senza dare nulla per scontato. Sono nato nelle Marche, a Porto Sant’Elpidio. Lasciai presto la provincia, che è una grande molla per chi vuole esplorare il mondo, per studiare a Bologna. A 24 anni arrivai a Roma, ma non avevo la valigia di cartone. Andai a vivere alla Garbatella dalla sorella di mia nonna. Facevo l’imitatore e partecipai in tv a Stasera mi butto. Da lì passai alla domenica condotta da Raffaella Carrà. Figurati, avevo finito due mesi prima la scuola Interpreti, pensavo di diventare traduttore letterario, mi ritrovai accanto a una persona che era una istituzione e che avevo visto solo in tv. Mi diede visibilità, mi ascoltava dietro le quinte. Le sono sempre stato riconoscente per quell’avvio su cui ho costruito il futuro».

Come ricorda Perrone?

«Lo conobbi vent’anni fa, quando uscì il romanzo. All’epoca il progetto di farne un film fallì. Era una persona che poteva parlare di tanti argomenti, curioso, con delle ombrosità liguri, era molto contento della sceneggiatura, purtroppo non riuscì a vedere le riprese».

Lei per quale squadra tifa?

«Juve e Ascoli, il mio territorio».

Bianconero in entrambi i casi...

«Già. È dura in questo periodo».

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