NON CI SIAMO MERITATI UN EROE COME DON DIANA E VORREI CHE FOSSE VIVO

Il sindaco sta inginocchiato davanti alla pozza di sangue, una grossa pozza di liquido nerastro, catramoso, che allaga il pavimento della sacrestia. Sussurra qualcosa. Prega, o forse no. «Forse ho bestemmiato — mi racconterà Renato Natale molti anni dopo –, continuavo a ripetere: Signore, perché hai permesso che facessero questo a Peppino?». È il 19 marzo 1994. Siamo a Casal di Principe. Qui la camorra è entrata in chiesa e ha ammazzato un uomo di dio come se fosse un cane rabbioso. Anzi no: con le bestie ammalate si usano cautele che qui non sono state adoperate. Gli hanno sparato in faccia, invece. Come si fa con i criminali. Come si fa con i traditori, con quelli che hanno sbagliato. E in effetti don Peppe Diana, nato proprio qui, in questa terra, trentacinque anni prima, ha “sbagliato”». Ha detto: «Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere segno di contraddizione». Ha detto che la camorra «è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana». E poi ha detto: «Per amore del mio popolo, non tacerò». Ecco dove ha “sbagliato”. E adesso giace sul pavimento della sacrestia, dentro la sua amata chiesa, con la tunica imbevuta del suo sangue scuro.

Il killer fra i fedeli

Oggi è San Giuseppe, l’onomastico di don Diana. È sabato. Il suo amico fotografo, Augusto Di Meo, è andato a trovarlo in parrocchia poco prima della messa delle sette e mezzo. «Ci abbracciammo, ci scambiammo gli auguri – ha detto in un’intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno –. Per lui era l’onomastico, per me la festa del papà. Ricordo che, per l’occasione, chiamò anche un suo collega per assicurarsi che un vassoio di dolci arrivasse agli studenti del liceo in cui insegnava». Proprio mentre loro si abbracciano e si scambiano gli auguri, un uomo mandato dal boss Nunzio De Falco, detto ’o Lupo, varca la soglia della parrocchia. Si chiama Giuseppe Quadrano, e ha un conto in sospeso con don Peppino, il quale, per decisione del Comune, non ha celebrato in chiesa il funerale di un suo cugino camorrista, che si è tenuto direttamente al cimitero. Per Quadrano, questo è stato un grave affronto. De Falco non deve aver avuto troppe difficoltà nel convincerlo a fare ciò che sta per fare. Il killer avanza nella chiesa già gremita di fedeli. Si dirige verso il corridoio che dallo studio del prete conduce alla sacrestia. E se li trova davanti, don Peppe e Augusto. È armato. Li guarda e chiede, gelido: «Chi è don Peppe?». E don Diana risponde senza tentennamenti: «Sono io». Quadrano spara cinque colpi, che vanno tutti a segno. Due, centrano alla testa don Peppino, che si accascia fra le braccia del suo amico Augusto. «Peppe morì all’istante – racconta Augusto nella stessa intervista –. Lo presi tra le braccia e lo chiamai, ma era già senza vita. Il suo volto era stato sfigurato da uno dei proiettili. L’assassino mise a posto la pistola nella cintura, si aggiustò la giacca e uscì senza correre. Intanto, nel giro di una manciata di minuti, attorno a me scapparono tutti. Tra le panche rimasero solo borse e scarpe, lasciate indietro nella fretta». È tutto finito. Quadrano ha avuto la sua vendetta, e ha tenuto fede all’impegno preso con il boss Nunzio De Falco. Due piccioni con una fava. Augusto Di Meo è corso dai carabinieri per denunciare l’accaduto. Se l’omicidio di un prete è un fatto insolito, nella Casal di Principe del 1994 lo è anche la reazione di Augusto, legato a don Peppino da un sistema di credenze e convinzioni che trascendono la fede cattolica. In questa terra, in questo tempo, anche Augusto Di Meo è segno di contraddizione. A piantonare la chiesa c’è un solo carabiniere. È pallido, spaventatissimo. Se qualcuno gli domandasse di cosa ha più paura, se della giustizia divina o della collera di Nunzio De Falco detto ’o Lupo, di Francesco Schiavone detto Sandokan, di Michele Zagaria detto Capastorta, di Antonio Iovine ’o Ninno e di Francesco Bidognetti detto Cicciotto ’e Mezzanotte, non avrebbe bisogno di rifletterci mezzo secondo. E come dargli torto. Se già non era abbastanza chiaro come va a finire, quando si “sbaglia” nei confronti del clan, adesso lo è ancora di più. Non esistono divise, militari o religiose che siano. Non esistono templi, né zone franche, né codici inviolabili. Non esiste vergogna. Non esiste protezione. Chi “sbaglia” muore. Amen.

Le calunnie

Non avevo ancora compiuto 15 anni, conoscevo bene Casal di Principe e quindi sapevo tutto. Ero stato addestrato. Quelle semplici leggi facevano già parte della mia educazione di giovane cittadino. Non avevo ancora compiuto 15 anni e don Peppe mi sembrava un uomo adulto, ma oggi che ho superato la sua età di quasi dieci anni, il suo volto mi appare per quel che era, il volto di un ragazzo strappato precocemente a un’ambizione che raramente resta impunita: quella di lottare per un rinnovamento umano concreto, vero, duraturo. Il contorno del suo viso disegnava già quel segno di contraddizione che lui sperava di vedere nei propri concittadini. Per questo l’hanno ammazzato, e lo hanno fatto prima che il contagio diventasse epidemia. E, non contenti di averne ucciso il corpo, di aver stroncato la sua esistenza terrena, sono andati avanti, con la pretesa di azzerarne il retaggio. L’hanno fatto nel modo più infame, con la calunnia, adoperando strumenti docili e affilati: quegli stessi giornali da sempre sensibili e quantomai attenti ai fatti di camorra in Terra di Lavoro. Da sempre attenti a non «sbagliare».

Il 23 giugno 1999, durante il processo di primo grado per l’omicidio di don Peppe, un quotidiano locale pubblica in prima pagina un articolo intitolato «Don Diana a letto con due donne». «Quello che abbiamo subìto dopo è stato tremendo – mi ha detto Marisa Diana, sorella di don Peppe –, perché non bastava che non lo avessimo più, non bastava quell’enorme dolore in famiglia. Con tutto quello che ci hanno fatto, ci hanno distrutto. Mia mamma diceva: “Mio figlio lo fanno morire tutti i giorni”, perché dover sopportare le calunnie è brutto. Lui era morto, non poteva difendersi». Il titolo del giornale si riferiva a una foto, una semplice istantanea mostrata durante l’udienza, in cui don Peppe Diana era abbracciato a due donne. Nell’articolo, le donne vengono indicate come sue perpetue. Sono riportati anche due nomi, che però nulla c’entrano con i fatti riguardanti l’omicidio e non appartengono alle donne ritratte nella foto, le quali, in realtà, sono due scout – una siciliana, l’altra calabrese – fotografate mentre sono sedute su un materasso in compagnia di don Peppe e sorridono all’obiettivo per la foto ricordo durante un campo scout. Se quella foto avesse mostrato qualcosa d’imbarazzante, come il titolo del giornale suggeriva, Peppe Diana non l’avrebbe tenuta nel suo studio, alla portata di tutti. Eppure, il quotidiano ci ha messo assai poco a suggerire un movente passionale. La pista, d’altronde, non sarebbe apparsa totalmente balzana a chi, con eccessiva scioltezza, indulgeva nel sospetto e nella calunnia: don Peppino era un prete giovane, girava in jeans, quando arrivava l’estate portava i calzoncini, non indossava quasi mai l’abito talare. Per i ragazzi era una guida, ma anche e soprattutto un amico. L’alterigia non gli era propria. La solennità, sapeva costringerla nei perimetri e nei tempi che le si confanno. A chi ha fantasticato sulla pista passionale, il salto dall’informalità al libertinismo dev’essere sembrato agevole. Ma l’ipotesi di un delitto passionale viene scartata subito, già nella sentenza di primo grado, che esprime parole nette: un omicidio così efferato deve innestarsi per forza su una matrice mafiosa. Solo che la voce, ormai, si è diffusa, e questo conta più di una sentenza. ’O Lupo, Sandokan e Cicciotto lo sanno bene. Una sentenza ripulisce la memoria giudiziaria, ma lascia spesso intatta quella umana, dolosamente inquinata.

Quella di essere un donnaiolo, tuttavia, è solo una delle accuse mosse a don Peppe Diana per “motivarne” l’assassinio, così da renderlo più digeribile a quelli (tanti) che, pur essendo disposti a tollerare intimidazioni e ammazzamenti vari, non ammettono che si possa assassinare un prete. E così, dopo le malelingue che lo definiscono donnaiolo, arrivano quelle che lo dipingono come un criminale. Facile, no? Cane mangia cane. Don Diana è stato ammazzato dalla criminalità perché era anch’egli un criminale. Cose che capitano a chi sceglie la vita di strada. Tutte fesserie, raccontate, però, durante un processo per omicidio: un pentito di camorra dichiara di aver saputo che Don Peppe, avendo ricevuto l’incarico di custodire un borsone pieno di armi per conto del clan De Falco, l’avrebbe poi consegnato ai rivali, cioè gli Schiavone. Sebbene la dichiarazione risalga a un’udienza tenutasi nel 1997, e sebbene già all’epoca diversi giornali riportassero queste strane confessioni ritenendole nient’altro che fango, è il 2003 quando una testata locale titola, tra virgolette, in prima pagina: “Don Peppe era un camorrista”. Il titolo nelle pagine interne è invece, sempre tra virgolette: “Don Diana custodiva le armi della camorra”, mentre l’occhiello dell’articolo sentenzia, stavolta senza neanche adoperare le virgolette: Fu ucciso perché era considerato un fiancheggiatore del clan. Per questi articoli, la famiglia di don Peppe Diana ha sporto querela e vinto la causa. «Sono stati dei momenti terribili, atroci – mi ha raccontato in seguito Marisa -. Le persone andavano da mamma e dicevano: “Vedi che è uscito l’articolo…”. Ci potevano credere, e ci hanno creduto pure, per carità. Io ne sono convinta. Abbiamo avuto dei momenti che non so descrivere, momenti bruttissimi, atroci. Quando leggi un articolo del genere ti crolla il mondo addosso». «Oggi c’è Facebook, allora non c’era – mi ha detto il sindaco di Casal di Principe –, i camorristi stavano al bar a prendere il caffè: “Quel prete? Eh… lo so io!”. Non c’era bisogno di dire altro. La calunnia passava di bocca in bocca». Per un periodo, la gente in paese si convinse che don Peppe qualcosa doveva pur aver fatto, anche perché, se da un lato è già difficile accettare l’idea che tu sia un santo, dall’altro è ancora più difficile pensare che, in un mondo in cui vige la legge del taglione, ti abbiano ucciso senza alcun motivo, senza alcuna causa diretta, senza che tu abbia messo bocca nei loro affari, senza che anche tu abbia ammazzato o tradito. Sostenere che don Peppe sia stato ammazzato non per il suo impegno contro la camorra, ma perché aveva l’amante o perché era coinvolto in affari dei clan, serve a giustificare chi ha accettato in silenzio, a testa bassa e senza ribellarsi alle regole feroci imposte a una terra senza Stato, e in fondo anche senza Dio.

Ma perché Nunzio De Falco detto ’o Lupo voleva la morte di don Peppe Diana? La spiegazione è più articolata della foto ricordo di un campo scout. Negli anni ’90, Casal di Principe è teatro di una feroce faida tra due fazioni del clan dei casalesi, quella di Francesco Schiavone Sandokan, e quella facente capo ad Antonio Bardellino, che però è sparito in Brasile. De Falco – che si trova a Granada, dove ha stabilito i propri affari – vuole affermarsi come erede naturale di Bardellino. Gli hanno ammazzato due fratelli: Vincenzo detto ’o Fuggiasco, e Giuseppe detto Barbacane. È solo, in esilio nel sud della Spagna. Vuole dimostrare alle altre famiglie che non si lascia pestare i piedi in casa propria da un giovane preticello di periferia che parla e sparla contro la camorra, che invita i giovani a ribellarsi, a prendere coscienza del proprio ruolo in una società matura, a essere segno di contraddizione. Se gli altri non battono ciglio, se gli altri si tengono gli schiaffi, lui no. Lui è il capo. Il vero capo. Spetta a lui salvare la faccia dell’organizzazione e non si sottrarrà a questo compito neanche di fronte a un uomo disarmato e in abito talare. Inoltre De Falco può contare su Giuseppe Quadrano, che da don Peppe Diana ha ricevuto quello che ritiene essere un insulto. È il killer perfetto, abile e motivato. Ma c’è un ulteriore aspetto che ’o Lupo ha certamente preso in considerazione. L’assassinio di un prete attirerà a Casal di Principe polizia e carabinieri, ed è proprio lì, a Casale, che si nasconde il suo rivale latitante Francesco Schiavone. Lui, invece, costretto all’esilio andaluso, da dove gestisce i business del clan, sarà comunque al riparo dai guai. «La camorra non è fatta soltanto dai criminali – mi spiega il sindaco Renato Natale –. Ci sono anche gli alleati, i professionisti, gli imprenditori, tutti coloro che ne traggono vantaggio. Si combatte come? Con la testa dura. Cioè si insiste, non si molla. Tu dici A, io continuo a dire B. Tu dici nero, io continuo a dire bianco. Prima o poi la verità si fa spazio, ed è quello che è successo con l’assassinio Giuseppe Diana. Ci abbiamo messo anni. Anni! Alla fine ci siamo riusciti. La promessa che feci a don Peppe, che il suo nome non sarebbe stato dimenticato e che la sua morte non sarebbe stata vana, è stata mantenuta».

Lenzuoli bianchi

La sera stessa del 19 marzo 1994, per le vie di Casal di Principe hanno sfilato in silenzio i ragazzi di don Peppino. L’amico e compagno di lotta don Carlo Aversano ha invitato i fedeli, durante la messa domenicale, ad appendere un lenzuolo bianco al balcone di casa. Così, il 21 marzo, nel giorno dei funerali di don Diana, Casale si è vestita di bianco. Alla protesta si sono unite perfino alcune famiglie camorriste, scandalizzate da un assassinio perpetrato in violazione di quel presunto codice morale di cui si è sempre ammantata la criminalità organizzata. Lenzuoli bianchi. Come a Palermo, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Il vescovo di Acerra, don Antonio Riboldi, alla vista di quei lenzuoli ha detto: «È morto un prete, ma è nato un popolo». Oltre ventimila persone hanno partecipato al corteo. Fra loro c’era anche l’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano. È da trent’anni che ripercorro e rivivo la vicenda dell’assassinio di don Peppe Diana. Oggi, per la prima volta e con grande dolore, avverto quello che devo chiamare col suo giusto nome: un cedimento. Uno scricchiolio nella mia coscienza di uomo e scrittore impegnato nella narrazione delle mafie. Oggi il mio cuore ha mancato un battito. È accaduto che, nel momento in cui ho iniziato a scrivere questo articolo, quando il volto di don Peppe mi è balenato davanti agli occhi e il suo sorriso fanciullesco ricolmo d’amore sono venuti a trovarmi per rinnovarne il ricordo, ho desiderato che non si fosse mai impegnato così frontalmente contro i clan. Ho desiderato di poterlo immaginare alla testa di un corteo per la pace. In uno dei suoi viaggi con l’amico Augusto o in una vacanza con i suoi giovani scout. Abbracciato ai suoi genitori. E invece, gli uni hanno dovuto accompagnarlo al cimitero, gli altri hanno dovuto proteggerne la memoria con le unghie e con i denti.

Lo abbiamo sciupato

E allora mi viene da domandarmi quali scampoli di questa nostra umanità votata alla contemplazione del martirio debbano ancora essere sacrificati sull’altare dell’indifferenza, sul patibolo della calunnia, sulla schifosa gogna dell’infamia, perché qualcosa muti davvero. Mi viene da chiedermi se ce lo siamo meritati, uno come don Peppe Diana, costretto prima alla gabella del trapasso, poi a quella della lapidazione a mezzo stampa, per assurgere infine al ruolo di eroe. Questo è ancora il Paese dove un eroe passa per la validazione del tumulo. È ancora così, io lo so, lo sappiamo tutti. E allora penso che don Diana l’abbiamo sciupato. Torno ai miei quasi quindici anni, a quel 19 marzo 1994, e vorrei che fosse ancora vivo. Che non fosse un eroe. Che il nutrimento d’anima, per tutti noi umani, sgorgasse dritto dalla carne dei nostri consimili mentre è ancora viva.

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