PAOLO BENVEGNù: «VIVO LA MUSICA SLACCIATO DAI DOVERI. OGGI SONO TUTTI BRAVISSIMI, MA SENTO TANTE CANZONI INUTILI»

Il suo ultimo disco, poetico e profondo, si intitola «È inutile parlare d’amore». Ma avere a che fare con Paolo Benvegnù vuol dire procedere per antìfrasi, usare un termine per intendere il contrario, mandare avanti l’ironia per maneggiare argomenti tutt’altro che leggeri. E in effetti, ammette il cantautore 59enne, «di amore mai come ora è utilissimo parlare, così come praticarlo».

Allo stesso modo, forse, mai come ora sono utili gli artisti come lui, totalmente slegati dalle logiche dei numeri, delle classifiche, dei sold out, nonostante sia da sempre elogiato dalla critica e ci sia un pubblico appassionato che lo segue ai concerti (è in tour per tutto marzo e aprile, adesso in duo e il mese prossimo con band intera): «Più che pubblico lo chiamo privato. Abbiamo privati che con privilegio riusciamo a intercettare».

Così in un mondo mosso dalla concretezza, le sue canzoni (nel disco ci sono due duetti, con Brunori Sas e con Neri Marcorè) guardano più all’immateriale: «Sono nato a Milano e sono stato subito piegato all’utile, a un mondo industrializzato in cui devi fare rumore. Ma quel che penso io è che l’amore abbia bisogno di silenzio e anche di non essere pragmaticamente importante. È qualcosa che va dall’irrazionale all’irrazionale».

Molto utopico, ammette: «È ovvio che io sia un disadattato ed è ovvio che quando vado dal benzinaio non penso di pagare in sassi, ma negli ultimi 25 anni ho sviluppato una meravigliosa passività dal punto di vista economico. Ho una piccola parte pragmatica per pagare i conti, riesco ad arrivare a fine mese e vivo la musica finalmente slacciato dai doveri. Questo mi permette di poter essere pazzo. La società oggi porta a questo: poterti pagare la follia».

Ma così si sente libero? «Diciamo che nella vita ho tirato via molti zaini. Milano alla fine degli anni 60 era molto dura, non guardavo il cielo, non leggevo quanto avrei dovuto, non ascoltavo gli altri, ma ora mi trovo bene nei posti più piccoli, dove c’è poco e dove c’è meno velocità. Lì si può entrare in contatto con le persone, uscire dall’io ed entrare in un noi».

I social network promettevano di essere un grande noi, ma ora prevale l’individualità: «È curioso che si chiamino social, io li chiamerei monad, monadi verso altre monadi. Ma va benissimo, è una pratica. L’umanità non si spegnerà per questo e già ora forse rispetto a 10 anni fa c’è uno sguardo più critico, specie fra le giovanissime generazioni che sono molto migliori di noi».

Benvegnù, nell’album, guarda anche alle donne come prodigiose creatrici: «Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano nel mancato riconoscimento della grandezza del femminile, nel fatto che cerchiamo prodigi ovunque, ma in realtà i supereroi li abbiamo a fianco». Una constatazione che è quasi un rimpianto: «Un uomo può creare grattacieli o cose user friendly, ma in realtà la creazione non ci è data. Io almeno quando canto vorrei essere una madre».

In «Canzoni brutte» fa «un’ode alla mediocrità», dice: «Quando uno è un pittore o un poeta minore, ha comunque diritto a essere visto. Io ho capito che veramente non so scrivere canzoni belle. So di avere dei limiti e cerco di valicarli». Ma sono proprio le sue a essere canzoni brutte o tante di quelle che si sentono in giro? «In questo momento più che canzoni brutte ci sono canzoni inutili. Sono tutti bravissimi, mai come ora ho visto sciorinare talento nello scrivere cose che funzionano. Vedo un grande potenziale, se solo ci fosse coscienza della bellezza. Penso al Duomo di Milano, fatto con la consapevolezza di durare nel tempo. Il prendi i soldi e scappa è un altro tipo di progetto».

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