PRIGIONIERI DIMENTICATI UN’OMBRA CHE VA DISSOLTA

Caro Aldo, a proposito del libro «Giovinezza» di Giuliano Giubilei, mi piace ricordare il romanzo di Giuseppe Berto «Il cielo è rosso» e il film «Texas 46» con Luca Zingaretti. Occasione di memoria e di riflessione, su cui a ogni italiano non dovrebbe dispiacere di soffermarsi. Gigi Montonato, Taurisano Siamo i figli dei fratelli Paolo Emilio, Capitano della Folgore (1912-2022) e di Bernardo Marenco, Maggiore di Artiglieria (1913-1985), catturati in Libia ad El Alamein e a Tobruck. Furono internati in India per 4 e 3 anni prima nel campo di Bhopal, poi, in violazione alla Convenzione di Ginevra, che stabiliva che i fratelli dovessero rimanere nello stesso campo, Paolo Emilio fu trasferito al campo di Yol. Ambedue decorati al Valor Militare, Paolo Emilio medaglia d’argento. Rientrati in Italia rispettivamente nel 1946 e nel 1945, si dimisero dall’esercito rinunciando ad ogni avanzamento e futuri privilegi. Non parlarono molto delle loro terribili esperienze, a parte la perenne malaria contratta nei campi di prigionia. Lodovica, Carlo, Susanna, Enrico, Filippo

Cari lettori, Molti di voi mi hanno scritto per parlare dei prigionieri di guerra dimenticati. Anche degli internati militari in Germania per troppo tempo si è parlato troppo poco; ma negli ultimi anni qualcosa si è mosso per ricordarli, e nel nostro piccolo abbiamo ospitato decine di racconti dei loro discendenti, orgogliosi della scelta dei padri di restare nei lager tedeschi (600 mila prigionieri, 60 mila morti) pur di non combattere per Hitler. Ma dei Pow, i Prisoners of War, insomma i prigionieri degli angloamericani si è sempre parlato pochissimo, al di là di studi senz’altro meritevoli ma che non mi pare siano usciti dalla cerchia degli specialisti e degli appassionati di storia. Il romanzo «Giovinezza» di Giuliano Giubilei ha il merito di approfondire questa vicenda, su cui grava un’ombra che va assolutamente dissolta. Di solito si pensa che i prigionieri fedeli al re e al legittimo governo italiano siano potuti tornare a casa dopo l’8 settembre, quando l’Italia non era più nemica degli Stati Uniti d’America e dell’impero britannico, cui il Duce aveva dichiarato guerra (oltre che all’Unione Sovietica: uno statista lungimirante, non c’è che dire). Ma questa possibilità fu concessa solo a una piccola minoranza, in genere di ufficiali (come Luigi Durand de la Penne, l’eroe di Alessandria d’Egitto). Gli altri restarono nei campi di prigionia in India, in Australia, in Kenya, in Sud Africa; segnalo al riguardo il long-seller di Carlo Annese «I diavoli di Zonderwater», la storia dei prigionieri italiani in Sud Africa che sopravvissero grazie allo sport. Tra loro c’era Ezio Triccoli, che vi rimase per sette anni, in cui imparò a tirare di scherma; tornato nella sua Jesi, fondò una scuola da cui sono uscite alcune tra le atlete italiane più forti di tutti i tempi (non possiamo non nominare Valentina Vezzali, Giovanna Trillini, Elisa Di Francisca). Tra i Pow c’erano fascisti irriducibili, c’erano antifascisti, e c’erano ventenni che sarebbero semplicemente tornati a casa; ma non poterono, anche perché ai vincitori la loro forza lavoro faceva comodo. Tutti furono vittime della guerra voluta da Mussolini; perché anche gettare i nostri soldati nella seconda guerra mondiale senza equipaggiamento adatto fu un crimine, contro il nostro stesso popolo.

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