SANDRA BONSANTI: «PAPà PRIMA DI MORIRE MI SVELò CHE A TRADIRLOCON LA SOFFIATA AI NAZISTI NON FU MONTALE»

«A procurare a mia madre quella carta d’identità falsa che ne nascondeva le origini ebraiche era stato Giorgio Bassani, che era un grande amico di papà. E così lei, che si chiamava Marcella Del Valle, su quel documento in cui ostentava uno sguardo fiero si era trasformata in Bonatto Giselda, nata a Bovalino, in provincia di Reggio Calabria. I nazifascisti alla fine la scoprirono anche perché un amico di mio padre fece una soffiata e lei, nel 1942, fu costretta a scappare. Mio padre seppe chi era stato a tradirci dopo la fine della Guerra e conservò il segreto fino a quando non fu in punto di morte».

Lei seppe il nome dell’amico di suo padre che vi tradì?

«Mio padre lo disse solo a me poco prima di morire, nel febbraio del 1984. Mi fece promettere che quel nome non lo avrei mai fatto. L’amico che tradì mio papà era un poeta».

Tra i poeti che suo padre frequentava c’era...

«Ecco, posso dirle che non si trattava di Eugenio Montale, che con papà rimase sempre in rapporti strettissimi. Insieme avevano fondato la prima edizione de , prima della fine della Guerra, su cui scrisse le sue prime cose Pier Paolo Pasolini. Fu l’unica rivista antifascista distribuita capillarmente e clandestinamente al di là della Linea Gotica. Diciamo che ho onorato al meglio la promessa fatta a mio padre in punto di morte perché quel nome, adesso, l’ho anche dimenticato».

Parlare con la giornalista di suo papà Alessandro, che morì nel 1984 da sindaco di Firenze dopo essere stato un protagonista di primo piano del mondo intellettuale italiano nei sessant’anni precedenti, è come passeggiare su e giù per il Novecento tenendo a braccetto la Letteratura. Bonsanti è stato scrittore, letterato, fondatore di e del , direttore per quasi quarant’anni del Gabinetto Vieusseux, carica ereditata proprio da Montale.

Oltre che il vero scopritore del talento di Carlo Emilio Gadda.

«Pur avendo due caratteri e due vite totalmente diverse, papà e Gadda erano inseparabili. Mio padre era comunque un giovane come tanti; Gadda invece aveva una vita sentimentale molto riservata, sempre che ne avesse una. Io l’ho sempre visto da solo. Veniva molto spesso mangiare a casa nostra e mia madre affettuosamente teneva il conto delle scodelle di minestra che scomparivano: “Oggi Carlo Emilio ha preso tre scodelle, ieri due”. Mio padre ci chiedeva di capirlo e ci ricordava di quanto avesse sofferto la fame nel campo di Cellelager, dov’era stato prigioniero dei tedeschi nel 1917/18».

Che ricordi ha di suo papà e Gadda?

«Gadda era come se mi sopportasse, come se la mia presenza fosse una specie di prezzo da pagare per frequentare mio padre. Comunque mi voleva bene, ricordo ancora della volta che mi aveva regalato un cavalluccio di paglia di quelli che facevano a Fiesole. Quando morì, nel 1973, io ero già a Roma a fare la giornalista. Mio padre mi mandò a casa sua, lo ricordo in questa casa vuota, solo, nelle sue ultime ore. Non c’era nessun altro se non due donne di servizio che si alternavano. Lo perdonai per avermi fatto sbagliare un compito di matematica alle elementari».

Quale compito?

«Dopo la fine della guerra finalmente potevo andare a scuola, in quinta elementare. La maestra ci aveva assegnato per casa un compito di matematica che non riuscivo a fare; disperata, avevo bussato alla porta dello studio di papà, chiedendogli aiuto. C’era anche Gadda e papà disse: “Fatti aiutare da Carlo Emilio, che è un ingegnere”. Col compito fatto da Gadda, il giorno dopo mi presentai a scuola. La maestra urlò che era tutto sbagliato, io disperata risposi “ma l’ha fatto Carlo Emilio Gadda!” e lei: “Ma chi è questo Gadda?”».

Che origini aveva la famiglia di suo padre?

«Umili. I Bonsanti venivano da Orbetello, nonno faceva il ferroviere e l’orgoglio dell’appartenenza al ceto popolare mio papà l’aveva sempre portato con sé, anche quando si era trasferito giovanissimo a Milano per lavorare in banca. Se è diventato quello che è diventato, il merito è stato della lettura: leggeva e studiava, studiava e leggeva. Tornato a Firenze nel 1926, aveva preso a frequentare la casa dei fratelli Rosselli, che era un po’ il ritrovo degli intellettuali antifascisti. Durante la sua direzione di Solaria e poi di Letteratura, che aveva fondato, seppi che faceva dei continui viaggi a Roma per tentare di allentare la morsa della censura. Per un certo periodo ci riuscì; poi per i fascisti superò il limite e fecero chiudere tutto».

Com’era il fascismo visto con gli occhi di una bambina figlia di antifascisti e con una mamma ebrea?

«Non se ne parlava, anche perché c’era il problema di difendere mia madre e le sue generalità false, garantite da quel documento d’identità che Bassani aveva procurato a mio papà. Un giorno le chiesi: “Ma Mussolini com’è, è vero che è cattivo?”. Mia madre rispose: “Non lo so, io non lo conosco”».

Come cambiò la vita della famiglia Bonsanti dopo la delazione?

«Papà rimase a Firenze mentre mia mamma fu costretta a nascondersi. Io, a sei anni, venni mandata a Vallombrosa, nella villa in cui la famiglia Colacicchi, che erano amici di famiglia talmente stretti da essere come parenti, ospitava alcuni ricercati. Mio compagno di giochi era Piero, il figlio dei Colacicchi, un bambino molto sveglio, molto più sveglio di me. Un giorno i nazifascisti si presentarono in paese e il prete suggerì loro che alcuni ebrei potevano nascondersi nella villa. Piero capì, corse a casa e disse alla mamma di iniziare a nasconderci. Nella villa aveva trovato rifugio anche Adriana Pincherle, la sorella maggiore di Alberto Moravia: fu lei a prepararmi per gli esami di prima elementare. Il titolo del compito era “la mia mamma”; e quando le maestre lessero il mio svolgimento, quello di una bambina angosciata perché la sua mamma le mancava, si misero a piangere».

Suo padre come venne a sapere dell’amico che vi aveva denunciati?

«Glielo dissero con certezza subito dopo la fine della Guerra».

Perdonò?

«Non so se in cuor suo avesse o meno perdonato quel tradimento. So per certo però che lo considerò alla stregua di una debolezza umana; che aveva avuto conseguenze gravissime, certo, ma pur sempre una debolezza umana. E lui, delle debolezze umane, aveva grande comprensione».

Quando alla fine della sua vita divenne sindaco di Firenze lei era già una giornalista affermata.

«Anche lì, al Comune, era ossessionato dalla ricerca e dallo studio, in questo caso applicate all’amministrazione della città. E ricordo che costringeva gli assessori a leggere, leggere, leggere, in queste sedute di giunta che erano interminabili: loro fremevano per sciogliere la riunione, lui li teneva inchiodati là. Gliel’ho detto, la lettura è stata la passione della sua vita».

Il vostro ultimo momento insieme?

«Prima dei suoi ultimi giorni in ospedale, ricordo questa lunga passeggiata al giardino di Boboli. La mamma, lui, io. Era la fine, lo sapevamo. Ma è stato uno dei momenti più belli e importanti della storia della nostra famiglia».

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