6 NOVEMBRE 2008, L’ELEZIONE DI OBAMA: LA PRIMA PAGINA DEL CORRIERE. VIVIANA MAZZA: «L’ULTIMO AFFLATO DI OTTIMISMO. ORA LA CORSA AL VOTO PUNTA SULLE PAURE»

Da mercoledì 20 marzo 2024, il Corriere offre in regalo ai suoi lettori alcune delle sue prime pagine storiche. Per gli arretrati rivolgersi all’edicolante o scrivere a [email protected]. Nell’edizione digitale sfogliabile su Ipad e Smartphone, le pagine sono leggibili nella sezione In Evidenza. Questo è il commento di Viviana Mazza a quella del 6 novembre 2008

Nel giorno dell’insediamento di Barack Obama, il 20 gennaio 2009, alle 4 del mattino Washington era già sveglia. Migliaia di persone venute da tutta l’America camminavano nel buio verso il National Mall per prendere posto e aspettare l’alba di un momento storico : il giuramento del primo presidente afroamericano. Più che le parole restano impressi i volti, le bandierine, le lacrime di gioia. Qualche mese prima, tra i campi di cotone del Mississippi persino la proprietaria di un bar per soli bianchi simile a quello raccontato in questa prima pagina da Aldo Cazzullo ci disse di preferire quel «giovane senatore afroamericano con poca esperienza politica» e «un background da outsider» — come scrive Angelo Panebianco nell’editoriale — piuttosto che John McCain, perché lei considerava quest’ultimo il volto del «sistema» responsabile della gravissima crisi finanziaria.

Oggi colpisce la frase di Obama: «Qui tutto è possibile». Si rivolgeva alla coalizione arcobaleno che lo aveva appena eletto, insieme a Joe Biden, il suo vice. Sedici anni dopo, Biden — ora presidente — cerca di ricostruire quella coalizione — giovani, neri, ispanici... — che rischia di scardinarsi. È meno popolare rispetto a 4 anni fa: solo l’83% di chi lo votò nel 2020 dice che lo rifarà. Il celebre «Yes we can» di Obama è diventato una sorta di «probabilmente potremmo» nella retorica bideniana: «There is nothing that the United States of America can’t do if we do it together» (Non c’è niente che gli Stati Uniti d’America non possano fare, se lo facciamo insieme). Ma il problema è proprio «fare le cose insieme».

L’insediamento di Obama è stato l’ultimo momento davvero ottimista nella presidenza americana. Oggi le campagne elettorali puntano sulla paura dell’avversario, sulla minaccia per la democrazia americana e i due rivali si accusano l’un l’altro di demenza senile. Questo è il risultato degli anni di Trump, culminati nel rifiuto di accettare l’esito del voto del 2020 e nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Oggi è difficile immaginare che uno dei due contendenti possa pronunciare, dopo la sconfitta, parole come quelle di McCain: «Auguro buona fortuna all’uomo che fu il mio rivale e che sarà il mio presidente».

Le aspettative nei confronti di Obama erano altissime, irraggiungibili. Vinse il Nobel per la Pace appena 9 mesi dopo l’insediamento. Mantenne la promessa di guidare l’America fuori dalla più grave crisi economica dalla Grande Depressione. Ma non potè mantenere quella di essere un presidente post-partisan. Mentre Obama si unì all’impopolare salvataggio di Wall Street iniziato sotto George W. Bush, i repubblicani al Congresso non ricambiarono: gli misero i bastoni tra le ruote, presentandolo come un tiranno socialista anti-americano. Il Tea Party, il movimento anti-tasse e anti-Obama nato nel 2009, è il predecessore del Maga (Make America Great Again) che ha reso il compromesso un tabù a Washington. All’inizio, grazie alla maggioranza democratica, Obama riuscì in imprese come il salvataggio di General Motors e il passaggio della riforma sanitaria Affordable Care Act, detta Obamacare. Il primo obiettivo di Trump è stato infatti smantellare le politiche di Obama, inclusi l’accordo con l’Iran e quello di Parigi sul clima. Per un decennio il partito repubblicano ha usato la rabbia contro Obamacare per vincere alle urne. Oggi però la riforma è popolare ed è una delle cose su cui Biden cerca di puntare in vista del voto.

Obama ha commesso errori in politica estera e non ha lasciato un mondo più sicuro: non è riuscito a porre fine alla guerra in Afghanistan, ha segnato una linea rossa in Siria permettendo che fosse oltrepassata, in Iraq sottovalutò l’Isis, intervenne in Libia dove poi fu ucciso l’ambasciatore a Bengasi... Eppure oggi c’è nostalgia, anche solo per un presidente che partecipa alla cultura con i suoi elenchi di libri e musica dell’anno e che, alla fine di una bellissima intervista con il corrispondente Paolo Valentino, disse: «Guardi, da giovane ho amato il cinema italiano: Fellini, Antonioni, De Sica. Per quanto riguarda la letteratura, sono più incline ai classici, Dante soprattutto». Nostalgia anche per Michelle: scriveva Maria Laura Rodotà che il fratello Craig non riusciva a credere che sarebbe stata first lady (troppo convenzionale, la immaginava astronauta). Ma Michelle ha mantenuto una presa sulla cultura, sul significato di essere donna, in particolare una donna nera intelligente e competente, senza dover esibire una dolcezza d’altri tempi. Una dura. Al punto che alcuni si ostinano a immaginarla, contro ogni evidenza, come candidata al posto di Biden.

Il cammino «dai linciaggi alla Casa Bianca» di cui scriveva qui Gian Antonio Stella diede l’illusione di poter sanare la frattura della schiavitù. Ma parte del Paese non ha mai accettato un presidente nero. Nel 2016 il più anti-Obama dei 17 candidati vinse la nomination repubblicana, poi la presidenza: un altro outsider, che contestava non solo le politiche ma la stessa cittadinanza del suo predecessore. E contestava le élite repubblicane: l’incendio che hanno appiccato ha travolto pure loro.

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