ISRAELE, COSì NETANYAHU PREPARA L’ATTACCO «PUNITIVO» CONTRO L’IRAN: SITI NUCLEARI E CYBER RAID

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME - Quando Yitzhak Shamir viene seppellito nel cimitero sul Monte Herzl il 2 luglio di dodici anni fa, è Benjamin Netanyahu — che era stato un giovane viceministro nel suo secondo governo — a commemorarlo. Adesso è lui alla guida del Paese e da appassionato della Storia e dei leader che l’hanno fatta (si sente uno di loro) ricostruisce la decisione presa dal premier nel 1991, quando cede alle pressioni di George Bush padre e non reagisce alle decine di missili Scud scagliati dal dittatore iracheno Saddam Hussein contro Tel Aviv e dintorni.

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Shamir stupisce così gli israeliani, era un falco della destra, anche solo per il passato da comandante della banda Stern, responsabile di attentati contro i britannici prima della nascita dello Stato. In quel discorso Netanyahu aggiunge la sua interpretazione: «Shamir non è rimasto inattivo. Ha avvertito gli americani delle conseguenze, se i bombardamenti fossero continuati. E avrebbe colpito l’Iraq, non fosse finita la guerra del Golfo».

Bibi, com’è soprannominato, si starebbe preparando a seguire questa seconda opzione, già allora l’elogio funebre gli era servito a sostenere la sua determinazione a ordinare un attacco contro i siti nucleari iraniani, ha sempre considerato fermare le ambizioni atomiche degli ayatollah una missione esistenziale.

E proprio i centri di sviluppo potrebbero essere tra i bersagli della eventuale rappresaglia al bombardamento ordinato da Ali Khamenei, la Guida Suprema, nella notte tra sabato e domenica. Sarebbe l’operazione più complessa tra quelle possibili, i piani esistono, sono stati visti e rivisti, prevederebbe l’utilizzo degli F-35 in diversi squadroni che coprirebbero i quasi 2.000 chilometri di volo da varie direzioni.

Manca un elemento essenziale, se l’obiettivo è fermare il programma nucleare: per distruggere centrali come Fordow, costruita a 80 metri di profondità dentro una montagna, sono necessarie le bombe «bunker buster» da 13 tonnellate che neppure l’amico Donald Trump gli ha fornito quand’era presidente.

Lo Stato maggiore potrebbe scegliere di colpire il regime dove fa più male e si nota meno, perché non ci sarebbero esplosioni. Già nel 2009 gli hacker dell’esercito, assieme agli americani, hanno programmato il virus Stuxnet che ha infettato i computer installati nei laboratori e ha ritardato le ricerche degli scienziati. Un cyber-raid potrebbe anche concentrarsi sulle infrastrutture — in passato sono state bersagliate le pompe di benzina e le industrie — per mostrare agli iraniani quanto la dittatura dei mullah possa essere fragile.

Una risposta più tradizionale con missili o una missione dell’aviazione si concentrerebbe sulle strutture militari cercando di evitare al massimo le vittime civili. Nel bersaglio ci sono le basi dei Pasdaran in Iran e i depositi di armamenti costruiti in questi anni dalle Guardie della Rivoluzione in Siria verso il confine con il Libano.

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