NEL CIMITERO DELLE BARCHE DISTRUTTE: «LA NOSTRA CONDANNA è GIà SCRITTA»

Barche da pesca piccole e grandi, squarciate, alcune sommerse per intero sott’acqua, altre con la sola prua che emerge e punta al cielo, le reti e i galleggianti alla deriva o attorcigliati, gli scafi sfondati o inceneriti sulla spiaggia, centrati in pieno dai bombardamenti. Le immagini di imbarcazioni distrutte si susseguono nella chat on line. «Mi manca il mare e mi mancano i pesci», si lascia andare a dire Zakaria Bakr. Fa il pescatore ed è il presidente dell'Unione generale dei lavoratori della pesca e dei marittimi di Gaza. Sfollato con la famiglia da novembre, ora si trova a Rafah. «Viviamo in condizioni disumane», racconta e alle parole alterna le foto delle imbarcazioni in rovina. Già prima di questa guerra la vita dei pescatori della Striscia era tormentata e rischiosa per le limitazioni alla navigazione imposte dalle autorità israeliane, per le confische delle barche subite da chi non rispettava i limiti e per il blocco marittimo, oltre che terrestre e aereo, in vigore dal 2007.

Ora che «la carestia è imminente nei governatorati settentrionali e si prevede che si verificherà tra metà marzo e maggio», come riferito in un rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC, classificazione su cui si basano governi, agenzie Onu e Ong), ci sarebbe più che mai bisogno di uscire a pescare per sfamare la popolazione. Mettersi in mare, però, è un rischio che oggi corrono in pochi. «Le barche sono state distrutte, ma sul litorale di Rafah, di Gaza City e di Deir al-Balah alcuni pescatori spinti dalla fame usano ancora piccole canoe per catturare qualche pesce. Tutti hanno paura di entrare in acqua per la presenza delle navi da guerra a un chilometro e mezzo dalla costa», prosegue Bakr. «Ma quando quelle si allontanano, c’è chi si spinge fino a un chilometro dalla spiaggia per battute di pesca rapidissime. La marina israeliana prende di mira chi ci prova. La settimana scorsa due fratelli sono stati uccisi in mare».

Il comparto della pesca era una delle principali fonti di approvvigionamento alimentare della Striscia. «C’erano 4.500 pescatori, 1.150 diportisti, 1.000 canoisti, 1.500 lavoratori dell’indotto, tra autisti, pescivendoli, operai delle fabbriche di ghiaccio. Ora il 90% è sfollato a Rafah e nella regione centrale, e molti sono morti», spiega Bakr. Poi la sua memoria va agli anni passati. «Abbiamo conosciuto tanti italiani che arrivavano a dare solidarietà a noi pescatori. Tra loro anche Vittorio Arrigoni, mio meraviglioso amico», scrive ricordando l’attivista e giornalista ucciso a Gaza nel 2011. «Ora qui nel luogo di asilo in cui mi trovo non c'è alcuna garanzia che io sia ancora vivo domani. Non ci sono parole per descrivere ciò che stiamo passando. Alcuni membri della mia famiglia sono ancora sotto le macerie della loro casa. Ogni giorno diciamo addio a qualcuno. Mio nipote Muhammad è morto oggi, era andato a cercare la farina. Due mesi fa era accaduto a suo fratello Adham».

Dopo le immagini delle barche distrutte, Zakaria Bakr ne invia altre due scattate prima di questa guerra, insieme a un video. In una foto c’è lui a governare il timone di una barca a motore al largo di Gaza City.

Nel secondo scatto, si vede il piazzale del porto coperto da una distesa di cassette colorate con il pescato del giorno. Poi in un filmato si distinguono, su una spiaggia, decine di piccole imbarcazioni muoversi simultaneamente, spinte in acqua dai pescatori, che corrono sul bagnasciuga e all’unisono saltano a bordo.

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