OGGI I NOSTRI CONFINI ARRIVANO GIà A BAKHMUT: COSì IN CINQUE ANNI SIAMO CAMBIATI TUTTI

T orno con la mente alle elezioni europee del 2019 e cerco di capire chi eravamo. Non è facile. Gli ultimi cinque anni sono stati un tempo accelerato, la pandemia prima, subito dopo l’Ucraina, cose che sappiamo. Anche solo evocare il nostro sentire nei primi mesi del 2019 richiede uno sforzo, e forse non è davvero possibile. C’era stata la Brexit, con il suo lungo strascico di abbandono, l’Europa ghostata da uno dei suoi membri, e c’era stata la sfilza di sabati scalmanati dei gilet gialli, che esprimevano un malcontento informe eppure ampio. Quell’energia populista, antieuropea, ha gradualmente perso la sua buccia luccicante di egualitarismo, poi anche quel poco di polpa idealista, e ormai non ne rimane che il nocciolo duro, nero, della rabbia antisistema, consegnato alle ultradestre.

Per un progetto del analogo a quello inaugurato oggi, una collezione di reportage dai paesi dell’Unione, scelsi nel 2019 di visitare un centro di studi sul cambiamento climatico su un’isola molto ricca a nord della Germania. Oggi non mi verrebbe in mente. Non perché la crisi climatica sia risolta, tutt’altro, procede a velocità maggiore del previsto, ma oggi non potrei che cercare il senso dell’Europa a est, lungo il confine nervoso, quasi verticale dei Paesi baltici; lungo quello più a sud, arcuato, tra Polonia e Bielorussia, del quale ci siamo accorti all’improvviso nel 2021, con l’ignominiosa crisi dei migranti di cui racconta il film più europeo di tutti, Green Border; e soprattutto nell’ultima parte del confine, con concavità opposta, che si allarga dolorosamente fino a Kharkiv e Bakhmut, fino a Lyman e Kupyansk, fino a Zaporizhzhia e Odessa e Kherson.

Davvero strano, davvero colpevole, a ripensarci, come cinque anni fa non ci preoccupassimo affatto di quel confine, il solo confine di terra dell’Europa unita. Non che ci mancassero gli elementi: l’invasione della Crimea, le trincee in Donbass, tutto era già accaduto, ma noi eravamo alle prese con la fatica concettuale di appartenere o meno all’Unione, con un’insofferenza sfuggente. Il baricentro dell’Europa, per noi, era tutto sbilanciato a ovest, e verso est svaniva gradualmente, nelle centinaia di chilometri di pianura monotona. Non più. Dal 24 febbraio 2022, il confine orientale si è ispessito, si è aperto come una ferita. Poi, a forza di sanguinare, è diventato un cheloide, duro e spesso come una catena montuosa, come i cumuli di terra delle miniere che disegnano il paesaggio del Donbass. A prescindere dai tempi tecnici di ingresso dell’Ucraina nell’Unione, oggi il confine orientale dell’Europa unita passa per Kharkiv e Bakhmut, per Lyman e Kupyansk, per Zaporizhzhia e Odessa e Kherson.

In ogni campagna elettorale c’è almeno una parola-sacco-da-boxe, una parola maltrattata perché facilmente maltrattabile, perché indifesa. Fa riflettere che nella campagna elettorale del 2019 la parola-sacco-da-boxe fosse proprio «Europa». Nel 2019 votammo — quella metà che lo fece — pro o contro l’Europa stessa. Solo cinque anni più tardi anche questo sembra impensabile. C’è una percezione diffusa, sottotraccia ma diffusa, di quanto le cose sarebbero andate male, cioè di quanto sarebbero andate peggio, prima con la pandemia poi con la guerra, se avessimo ceduto pienamente alle tentazioni sovraniste. Dal momento che la politica è sensibilissima a questo genere di mutamenti interiori, è stato tacitamente sancito che okay, l’Europa va bene, facciamo che è acquisita. La parola-sacco-da-boxe della campagna elettorale 2024 può allora essere la stessa che abbiamo maltrattato in ogni modo possibile negli ultimi due anni: «pace». Perché no? Si può fare quel che si vuole anche della parola «pace».

La si può strumentalizzare, svuotare, volgarizzare, pervertire. Si può invocare la pace dove non è possibile averla, «negoziarla» in cambio di territori che non ci appartengono, pretenderla sulla pelle di altri: a noi non costa nulla. Abusare la parola «pace» non è così diverso da abusare la parola «Europa», dopotutto. Almeno fintanto che qualcuno — qualcun altro, a est — si occupa di garantire intatta questa fantasia pacifista, con armi e munizioni che arrivano troppo lentamente, negli avamposti di Kharkiv e Bakhmut, di Lyman e Kupyansk, di Zaporizhzhia e Odessa e Kherson.

Non ci ricordiamo il suo nome, ma non dimenticheremo la fotografia in cui compare: Nana Malashkhia, la donna georgiana che a marzo 2023 sventolava la bandiera europea contro il getto degli idranti della polizia, a Tbilisi. La Marianne dell’Europa unita contro l’aggressione russa. Mi colpisce, riguardandola a distanza di un anno, che indossasse una mascherina Ffp2: una sintesi straordinaria del lustro trascorso. E mi colpisce come quella fotografia, che pure ho visto e rivisto, mi provochi ancora un moto di commozione. Non sono troppo incline allo sventolamento di bandiere, allo sciovinismo in genere, semmai il contrario, ma quella donna... credo che nel 2019 non avrebbe significato molto per me, mentre adesso... Kharkiv e Bakhmut. Dobbiamo imparare i nuovi confini, come a scuola. Lyman e Kupyansk. Non dobbiamo smettere di ripetere i nomi. Zaporizhzhia e Odessa e Kherson.

2024-03-28T22:17:07Z dg43tfdfdgfd