PIERO GOBETTI, IL 1924, L’ASSASSINIO DI MATTEOTTI E IL DISTACCO DALL’AVENTINO

Il 1924 è l’anno dell’assassinio di Giacomo Matteotti, un anno cruciale per i destini della democrazia italiana. Eppure in questo volume — Piero Gobetti, , Einaudi, pp. 1.506, e 120, introdotto e magnificamente curato fin nei minimi dettagli da Ersilia Alessandrone Perona — delle vicende e delle discussioni politiche originate da quell’assassinio in campo antifascista c’è abbastanza poco. Gobetti scrive il più bel necrologio allora pubblicato di Matteotti, ma nei mesi seguenti la sua attenzione sembra tutta concentrata, oltre che sulla sua casa editrice, sulla costituzione dei Gruppi di Rivoluzione Liberale e sull’allargamento al Mezzogiorno della rete di contatti e di collaborazioni che da tempo andava tessendo. Il fatto è che fin dal primo momento egli si è convinto che la sola risposta possibile al delitto sia un’azione decisa di scontro frontale con Mussolini e vedendo che le opposizioni costituzionali invece ne hanno scelto un’altra, quella fallimentare dell’Aventino, decide di fatto di starne fuori.

Nella sua breve misura era comunque perfetto questo giallo di Gian Antonio Ferrari (Marsilio, pp. 124, e 15): dall’ambientazione nel mondo editoriale con certi suoi editor ascetici e relative segretarie devote, un mondo che l’autore conosce come pochi per esserne stato a lungo una sorta di Gran Visir regnante dalla reggia di Segrate, ai dialoghi essenziali mai tirati inutilmente per le lunghe, alla scena della Milano fascista ma politicamente infida degli anni Trenta che fa da sfondo, tenuta d’occhio dalla polizia con il suo giro di informatori e confidenti. Ma se si sceglie un’ambientazione storica bisogna accettare il vincolo di ciò che è storicamente verosimile. E dunque nel momento decisivo del finale Ferrari, appunto, avrebbe dovuto tener conto della storia per evitare di rendere poco plausibile il suo racconto. Del fatto notissimo che durante il fascismo sui libri esisteva la censura e che nessun autore quindi poteva neppure lontanamente immaginare che le proprie pagine sarebbero mai state pubblicate senza essere prima lette dal censore: e se del caso spietatamente buttate nel cestino.

Si chiamava John Basilone. È stato l’unico soldato statunitense della Seconda guerra mondiale a ottenere entrambe le due più alte onorificenze al valore: la Medal of Honor e la Navy Cross. Morì a Iwo Jima il 19 febbraio 1945, colpito da un proiettile di mortaio giapponese: era un italo-americano del New Jersey. Come lui altri 800 mila italo-americani combatterono in quegli anni nell’esercito degli Stati Uniti, costituendo il più importante gruppo etnico non autoctono dell’esercito Usa. Un paio di centinaia riposa oggi in uno dei tanti cimiteri alleati in Italia ma, come ha ricordato Aldo Cazzullo, nessun politico italiano il 25 aprile pensa mai di portar loro un fiore. In un bel libro di Matteo Pretelli e Francesco Fusi (, il Mulino, pp. 597, e 38) si racconta di loro, della svolta che rappresentò la guerra per la comunità italo-americana, del complesso rapporto di quei militari con la sconosciuta terra degli avi, del ruolo di «governatori civili» che essi spesso ricoprirono nelle località della Penisola.

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