RICCARDO CHAILLY: «CELEBRO IL PUCCINICHE SI ISPIRò A BROADWAY»

Per il maestro Victor De Sabata La rondine era «la più elegante e raffinata partitura di Puccini». Dal 4 aprile inaugurerà alla Scala l’anno del centenario dalla morte del compositore di Torre del Lago, con la direzione di Riccardo Chailly. È uno dei titoli meno frequentati, opera di lunga gestazione nata per il Carltheater di Vienna nel 1914 e andata in scena a Montecarlo solo nel 1917, diretta da Gino Marinuzzi con interprete Tito Schipa (libretto di Giuseppe Adami). Alla Scala arriva nel 1940 con Mafalda Favero e Giovanni Malipiero: «Ci mise 23 anni — racconta il maestro Chailly — perché era stata preceduta a Milano da rappresentazioni che avevano fatto imbufalire Puccini».

Sergio Sablich diceva che «La rondine» mette in gioco l’idea di compiutezza: troppe versioni, aggiustamenti…

«La risposta viene dalla scoperta del manoscritto di Torre del Lago che precede la messa in scena del ’17, ora nell’edizione critica di Ditlev Rindom per Ricordi. L’opera appare compiuta, di chiarezza e bellezza formale, con ottima strumentazione, riduzione delle percussioni e l’uso dei tromboni che nel terzo atto diventano un’evidente sorgente sonora drammaturgica. Ci sono, inoltre, 87 nuove battute».

Si parla di due atti magnifici e il terzo non risolto?

«No, è l’atto più interessante con citazioni da Butterfly, La Fanciulla del West e Suor Angelica. Fedele D’Amico diceva di un capolavoro al 90%; io reputo La rondine tra le maggiori opere, al pari di Fanciulla e del Trittico che ho diretto alla Scala».

Si sentono riferimenti ad altri compositori, Massenet, Strauss, Stravinskij…

«Nel primo atto c’è una citazione, quasi scherzosa, da Salome di Strauss, e poi guarda a Mahler, Stravinskij e alle Valses nobles et sentimentales di Ravel».

Le Danze sono molto caratterizzanti…

«Cinque danze popolari. I valzer appaiono 12 volte e nel secondo atto sfidano il Rosenkavalier; c’è poi il quick step, un ballabile di sala; il tango trattato come ibrido della milonga; la polka e lo slow fox, che è un lento toccante. A proposito di quest’ultimo, sono convinto che negli anni in cui Puccini andò a New York si documentò a Broadway. Il duetto del secondo atto tra Magda e Ruggero ricorda le musiche di Richard Rogers come Blue Moon, oppure Oklahoma! Credo che Puccini abbia preso ispirazione da quel mondo: fa capire di aver ascoltato, ma è sempre lui, non è citazione o plagio, influenza di uno stile».

Puccini si cala nei recessi psicologici più intimi…

«Sì, nel 1917 la donna che abbandona l’uomo è qualcosa di atipico, al contrario di oggi. Lui riesce con la potenza della musica a descrivere questo lento e doloroso riscatto: c’è amore reciproco, ma le ragioni della vita prevalgono. Non c’è la tragicità della morte».

La regia di Irina Brook prevede quasi un alter ego in scena…

«La scenografia è attualissima nell’immagine. Il primo atto è una rappresentazione di una prova d’opera che dev’essere allestita. L’allestimento avviene dal secondo atto in poi. Irina ha molte idee, dettagliate e funzionali. Ha lavorato studiando bene i movimenti del corpo. Porta in opera il mondo ibrido attraverso il musical americano».

Le voci sono quasi tutte italiane.

«Un bel cast di musicalissimi talenti italiani che mi dà molto orgoglio. Sono instancabili in quanto giovani e credibili nella freschezza scenica, ma non a discapito della musicalità».

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