SECOLI DI TRADIZIONE O BUGIA COLLETTIVA? MAXI-PROCESSO ALLA CUCINA ITALIANA

Abbiamo intitolato il nostro libro La cucina italiana non esiste (Mondadori, 276 pagine, 19 euro) per chiarire che la nostra cucina non è affatto ciò che ci raccontiamo giorno per giorno, sclerotizzando discorsi e ragionamenti e, soprattutto, raccontandoci bugie. Ciò che di certo esiste, invece, è l’integralismo gastronomico di un Paese aggrappato alla sua cucina per affermare la propria identità. L’arte della tavola italiana oggi è ammirata in tutto il mondo, ma solo qualche decennio fa la realtà e la percezione dentro e fuori dai confini nazionali era ben diversa. Gran parte della nostra gastronomia e dei nostri leggendari prodotti alimentari — a cui spesso vengono attribuite origini centenarie — è nata dopo il boom economico, quando ci siamo lasciati definitivamente alle spalle la povertà e la fame che ci attanagliavano nei secoli precedenti.

Il ruolo dell’emigrazione

Al momento dell’Unità molti italiani, quasi tutti contadini, non mangiavano mai carne e molto raramente pesce, latte o formaggio, con le logiche conseguenze sulla salute di gran parte di quella popolazione affamata e disperata. Circa 20 milioni di italiani lasciarono il Belpaese per raggiungere il resto dell’Europa e delle Americhe. E lo fecero quasi tutti per un unico motivo: la fame. Però, il fatto che gli italiani fossero quelli che mangiavano peggio non significa automaticamente che non vi fossero anche in Italia buone ricette e piatti tradizionali. In fondo tutti noi abbiamo una nonna che faceva tortellini buonissimi o una genovese strepitosa o degli arancini indimenticabili. Esatto, faceva uno, due, al massimo tre piatti, sempre quelli, per le festività più importanti, e per il resto si limitava a cuocere pasta, carne e verdure nel modo più semplice possibile. Che poi è esattamente quello che hanno sempre fatto tutte le nonne del mondo, le quali, a loro volta, avevano anch’esse due o tre piatti della festa, fossero tedesche, inglesi o brasiliane.

Il gusto italiano in cucina

Ma allora il gusto italiano c’è o non c’è? C’è, ma proprio come per la cucina, negli ultimi decenni ha conosciuto un’evoluzione straordinaria, dopo il boom economico per intenderci e soprattutto continua a evolversi e a contaminarsi. Perché per creare un gusto e un piacere quotidiano nello stare a tavola, per prima cosa servono gli ingredienti e magari anche un po’ di soldi per acquistarli. Fu necessario attendere il secondo dopoguerra e la cosiddetta golden age dell’economia occidentale per vedere una vera rivoluzione nell’economia e anche nei piatti degli italiani.

Una storia che parte dagli Usa

Prima del boom economico l’evoluzione del modello alimentare tricolore è avvenuta soprattutto fuori dai confini nazionali e in particolare negli Stati Uniti d’America. Perché se c’è una cucina nazionale e se esiste un’identità gastronomica italiana, questa è nata in America. È dall’altra parte dell’Atlantico, ad esempio, che i nostri immigrati, che per la maggior parte non conoscevano la pasta secca (esclusi i napoletani e pochi altri abitanti del Sud), diventarono «mangia- maccheroni». La stessa salsa di pomodoro diventerà la base della cucina italiana prima di tutto in America, dove veniva prodotta industrialmente già dagli anni ’70 dell’Ottocento, mentre da noi poteva essere consumata solo nel brevissimo periodo di maturazione del pomodoro. Questi usi e costumi verranno poi riportati dai nostri migranti in patria.

Il ritorno in Italia

Ma non sempre queste novità alimentari risultarono gradite alle élite italiane, e il fascismo addirittura osteggiò la pasta, considerandola una moda a stelle e strisce. Dopo il 1945 sarà ancora lo Zio Sam a plasmare il modello consumistico della Penisola: non a caso i primi supermercati videro l’impegno finanziario di personaggi come Nelson Rockefeller e il coinvolgimento diretto della Cia, forte del motto «è difficile essere comunisti con la pancia piena».

Un problema linguistico

C’è un grande equivoco, allora, quando si parla di storia dell’alimentazione: è un problema linguistico, ma soprattutto di sostanza. In Italia spesso si identifica la storia dell’alimentazione con la storia della cucina. Nel nostro Paese il tema identitario legato al cibo è oggi talmente forte che si tende a far coincidere i modelli alimentari del passato con i ricettari, la storia dell’alimentazione con la storia degli alimenti. Tra le due storie, però, non c’è quasi alcun rapporto. Sarebbe come pretendere di comprendere l’evoluzione del mercato dell’automobile analizzando i progressi tecnologici della Formula 1. Un conto è quello che mangiavano gli italiani, quasi tutti poverissimi, e un conto è quello che scrivevano i cuochi nei loro ricettari.

La nascita del mito

Ma quando è nato il mito della cucina italiana? Negli anni ’70, quando, dopo gli anni del boom, l’Italia dovette fare i conti con i costi dello sviluppo e con un ciclo economico che si stava invertendo, tra crisi energetica, ondate di at- tentati e austerità. E più che rilanciare la macchina industriale attraverso investimenti e innovazione, l’Italia puntò sulla promozione delle piccole imprese, delle regioni artigianali, del Made in Italy e delle sue eccellenze gastronomiche. Incapace di programmare il futuro, l’Italia si è rifugiata nell’invenzione del passato e della tradizione come àncora di salvezza in un mondo sempre più competitivo. Da lì ha preso avvio la narrazione di una cucina dalle radici secolari, addirittura millenarie.

La corsa alle denominazioni

Ecco allora da dove è partita la corsa forsennata alle denominazioni, presunte garanzie di genuinità: Dop, Igp, Stg. Non è un caso se l’Italia è leader in Europa di denominazioni. Tutto questo testimonia sì la qualità delle nostre produzioni — che non mettiamo in dubbio —, ma anche un’irrefrenabile ansia di certificazione e riconoscimento. Tanto da farci chiudere con una domanda: non vi sembra davvero paradossale che il nostro Paese, che non perde occasione per affermare la propria superiorità in cucina, senta questo continuo bisogno di ricevere un riconoscimento esterno?

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