IL PRESIDENTE LEONE E LE CARTE INEDITE, DAI TENTATIVI PER MORO ALL’ORA DELLE DIMISSIONI: «ERO DAVVERO SOLO»

Quando Giovanni Leone compì novant’anni, il 3 novembre del 1998, Emma Bonino e Marco Pannella gli inviarono una lettera bellissima. Bellissima perché inusuale, nella brutalità della vita politica. Una lettera di scuse. I radicali erano stati protagonisti, nel 1978, della campagna di opinione per le dimissioni dell’allora Presidente della Repubblica. Erano giorni terribili, erano i giorni successivi al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro, era quel tempo di lupi e di sangue che non dobbiamo smettere di ricordare. Immagino oggi Giovanni Leone che, nella sua stanza, tortura con le mani quella lettera che deve avergli, insieme, provocato dolore e soddisfazione. Avrà pianto, quell’uomo anziano, leggendo queste parole che i suoi avversari più feroci di vent’anni prima gli scrivevano, dando prova di raro coraggio civile: «Le siamo grati per la grande e unica dignità con la quale - dopo le sue dimissioni da Presidente della Repubblica - lei ha vissuto e onorato per oltre due decenni la vita istituzionale e civile di questo Paese, tornando con esemplare discrezione a essere in primo luogo il grande maestro di diritto di cui l’Italia ha totalmente perso lo stampo e anche un legislatore ispirato e attento in occasioni cruciali per gravi scelte imposte al Paese dall’oligarchia che lo domina. Le siamo grati per l’esempio da lei dato di fronte all’ostracismo, alla solitudine, all’abbandono da parte di un regime nei confronti del quale, con le sue dimissioni altrimenti immotivate, lei spinse la sua lealtà fino alle estreme conseguenze, accettando di essere il capro espiatorio di un assetto di potere e di prepoteri, che così riuscì a eludere le sue atroci responsabilità relative al caso Moro , alla vicenda Lockheed, al degrado totale e definitivo di quanto pur ancora esisteva di Stato di diritto nel nostro Paese. Lei ha continuato, da allora, a tacere anche di fronte a mille occasioni di richiedere la giustizia della verità, di provocarla a sua difesa e a suo favore, certamente ottenendola, attendendo con esemplare fiducia di cittadino che il Paese fosse esso capace di farlo. Ma i suoi giustizieri, quanto vili, sono oggi più di allora padroni d’Italia».

Piero Chiara e l’incontro con Leone

Un bellissimo e introvabile libro di Piero Chiara, scrittore lontano dalle cose della politica, inizia con il racconto suggestivo di uno smarrimento di strada. Piero Chiara un giorno voleva andare a Vejo ma, non conoscendo bene le strade della campagna attorno a Roma, si smarrisce sbagliando la direzione a vari incroci. Allora non esistevano i navigatori che oggi decidono, con quella asseverazione autoritaria che tanto piace, itinerari e destinazioni. C’era l’antica, calda, abitudine di chiedere indicazioni a esseri umani che si sforzavano di capire il problema e di indicare una soluzione. Anche quella, in fondo, una piccola, perduta, abitudine comunitaria. Lascio la parola a Piero Chiara: «A chi chiedere? Sopra la cinta e oltre la rete vidi qualcosa che si muoveva tra i cespugli. Pensai a un fagiano. Invece era un uomo. Doveva essere fermo da un po’ di tempo, forse insospettito dalla mia presenza sulla strada. Appena si mosse notai che era piuttosto basso di statura. In testa aveva un berrettone di colore indefinibile e la sua faccia era seminascosta da un grosso paio d’occhiali dai quali sporgeva un forte naso a becco. “Dove l’ho visto?” mi domandai incontrando il suo sguardo. “Per favore…cerco Isola Farnese…” “Isola Farnese?” chiese allarmato “Vejo” precisai allora “L’antica Vejo” “Dall’altra parte” gridò “Siete fuori strada. Dovete raggiungere la Cassia. Poi domanderete”». Solo allora lo scrittore si rende conto che l’uomo a cui ha chiesto la giusta strada è Giovanni Leone, fino a sei anni prima Presidente della Repubblica. Quando si chiariscono, i due stabiliscono una breve e intensa amicizia. Si parlano. Leone si confida perché si fida. E Chiara scrive, sul loro incontro, un libro colmo di tenerezza per l’uomo e di rabbia per l’ingiustizia che aveva subito. Leone fu costretto alle dimissioni, primo caso della storia repubblicana, in seguito a ripetute campagne di stampa contro di lui.

«La mia debolezza»

Ho avuto modo di consultare delle carte di Giovanni Leone, che contengono molti elementi inediti. Mi ha colpito che alcuni fogli siano raccolti con il titolo “la mia solitudine”. “Ero veramente solo. Credevo che quella solitudine- intesa come indipendenza- fosse la mia forza; ed era invece la mia estrema debolezza.”. La solitudine di un Presidente. Leone era stato eletto malamente, con il nascosto concorso della destra estrema, in una di quelle gare di roulette russa che sono sempre state, salvo poche eccezioni, le elezioni dei Capi dello Stato. In quel tempo di dominio democristiano si nascondevano, nelle mani di viscidi “grandi elettori”, pistole invisibili con le quali i solenni e pubblici impegni presi di sostegno del candidato scelto dal proprio partito si trasformavano, nel segreto dell’urna, in un cecchinaggio selvaggio. I democristiani di allora si scannavano, per il Quirinale. Una storia che però non è finita, se è vero che accadde lo stesso con i 101 che infilzarono la candidatura di Prodi e se, per ben due volte, non si è recentemente riusciti a eleggere un nuovo Presidente e si è dovuto chiedere agli uscenti, per fortuna magnifici uscenti, di restare al proprio posto perché il Parlamento non era in grado di scegliere una persona.

Giurista e deputato alla Costituente

Leone era un insigne giurista e un sincero democratico. Nei giorni dell’8 settembre 1943, da tenente colonnello presso il Tribunale Militare di Napoli, riuscì a far scarcerare centinaia di detenuti politici. Fu giovane deputato nella Costituente, membro della commissione dei settantacinque e relatore sul titolo che ineriva alla magistratura. La sua famiglia viene segnata da dolori profondi, a cominciare dalla morte, nel 1954, a cinque anni, del secondo figlio Giulio. Due anni dopo il primogenito Mauro viene colpito dalla poliomelite, malattia che allora mieteva vittime a ripetizione, prima della magica zolletta di zucchero, un vaccino in gocce, che verrà comminata nelle scuole per debellare la malattia. Fu per due volte Presidente della Camera e per due alla guida di fragili governi, nati per salvare legislature al loro inizio. Per due volte fu candidato, ufficiale e no, al Quirinale, nel 1962 e nel 1964. Poi, nel 1971, fu eletto.

Presidente negli anni del terrorismo

A lui toccò un periodo turbolento: quello del terrorismo, di una grave crisi economica, del referendum sul divorzio, dell’avanzata del Pci in un contesto internazionale ancora segnato dalla guerra fredda. E, anche, dei costanti rivolgimenti interni al partito scudocrociato che cambia più volte maggioranze interne. Durante il suo settennato ci saranno infatti otto governi diversi e si passerà dalla formula del centrodestra, Andreotti-Malagodi del 1972, al governo, sempre Andreotti, con la partecipazione dei comunisti nella maggioranza. Leone accompagnerà questi processi, nel pieno rispetto delle prerogative del Quirinale e di quelle del Parlamento.

Lo scandalo Lockheed

Ma intanto inizia contro di lui una lenta, sistematica, opera di demolizione. Prima agendo sulle stranezze di comportamenti poco protocollari, famose le corna esibite in risposta a una manifestazione che si svolgeva al grido di “Morte a Leone”. Poi accostando il suo nome a quello dello scandalo della Lockheed, cosa dalla quale verrà scagionato completamente con il voto della commissione inquirente che all’unanimità, compresi i rappresentanti dell’opposizione, decreterà la sua totale estraneità. Solo il socialista Campopiano si opporrà. Poi ci si occuperà dei rapporti, invero inopportuni, con la famiglia Lefebvre, ma pure della demolizione di alcune piante a San Rossore, del maneggio coperto al Quirinale, del fatto che aveva cantato O’ sole mio durante un viaggio all’estero. Leone non aveva evidentemente le physique du role in un tempo che stava diventando molto televisivo e non aveva neanche una corrente della dc che lo blindasse.

L’apertura a una trattativa sul caso Moro

Durante il rapimento Moro, forse stando persino troppo defilato, cercò delle soluzioni e si disse pronto a firmare la grazia per casi umanitari di terroristi malati che potessero costituire terreno di trattativa per la liberazione di Moro. «Pensai a un intervento della Croce Rossa Internazionale. Da parte del governo mi fu detto che il passo era stato tentato ma che la Croce Rossa Internazionale si era dichiarata incompetente; io ritengo che quel passo non venne mai fatto». Nelle sue carte aggiunge un episodio inquietante: «I giornali hanno riportato una telefonata della signora Moro (era la sera precedente il delitto) che m’implorava di far intervenire Zaccagnini; stavo per telefonargli quando Cossiga, che era presente, mi bloccò la cornetta dicendo che era tutto registrato». Nei fascicoli che ho consultato, Leone ha conservato la fotocopia di un’intervista di Morucci a Bocca in cui il Presidente aveva sottolineato una frase del brigatista: «Mettiamo che i tre fossero stati scarcerati e che due o tre giorni dopo fosse uscita una dichiarazione della DC che in qualche modo suonasse riconoscimento. Io non escluderei proprio che in tal caso la vita di Moro potesse essere salvata».

Le accuse per il volo di Stato e per la villa

Nell’ultima fase della campagna di attacco contro di lui lo si accusò di un viaggio all’ estero dei figli su un volo di stato, Leone scriverà nelle sue carte «di aver disposto quel viaggio perché volevo si acquistassero medicinali esistenti solo sul mercato di Montecarlo per i postumi di un’operazione alla prostata subita un mese prima». E poi l’ultima raffica, quella su attività edilizie speculative nella sua villa di Formello. Scrive Leone di «una devastazione umana e spirituale su di me operata da quella specifica accusa». La misura è colma. I giornali ogni giorno picchiano sul Quirinale, il sistema politico è già scosso dalle conseguenze del devastante assassinio di Moro, i referendum sulla legge Reale e sul finanziamento pubblico dei partiti hanno disvelato un profondo malcontento, la Dc è nella bufera, il Pci non regge più una solidarietà nazionale che è divenuta un simulacro.

Una giornata drammatica

In una drammatica giornata, il 14 giugno, tutto si consuma. Leone ha preparato un’intervista all’Ansa per difendersi. Essendo rimasto uomo di partito consegna il testo ai capi democristiani e qualcuno di loro lo gira a Botteghe Oscure. «La notte in cui la mia ultima difesa era all’esame dei grandi comprimari era ormai l’ultima notte in cui si consumava il settennato». Andreotti, ineffabile, consiglia costantemente di non rispondere alle polemiche, che, invece di spegnersi, si moltiplicano. Scrive Leone: «A giudizio di Andreotti , nonostante la condizione obiettivamente pesante, i partiti a quel momento non mostravano segni tali di tensione da creare gravi preoccupazioni. Forse un chiarimento sarebbe utile, addirittura indispensabile. Ma non sembravano sussistere elementi di incontrollabilità…».

Il vuoto intorno

Quel giorno c’è una cerimonia al Quirinale, ma tutti hanno fretta, perché nel tardo pomeriggio gioca l’Italia ai mondiali. Andreotti e Zaccagnini si riuniscono nello studio di Leone ma in sostanza gli fanno il vuoto intorno. «nella tarda serata Andreotti mi telefonò dandomi assicurazione» sul fatto che i comunisti, nella riunione della direzione del mattino dopo, non avrebbero chiesto formalmente le dimissioni. Sempre Leone: «Andreotti appariva in definitiva non del tutto pessimista, nel senso soprattutto che non drammatizzava gli avvenimenti». Invece tutto precipita. Paolo Bufalini, dirigente del Pci, si fa ricevere dal Segretario generale Valentino per comunicare la decisione presa. È il primo atto dello sganciamento del Pci, dopo la morte di Moro, da un equilibrio di solidarietà nazionale che nessuno sembra più volere. La Dc tace, dopo aver sostanzialmente impedito che il Presidente si difendesse. L’intervista all’Ansa non sarà mai resa nota. Scrive Leone con amarezza: «A mio avviso Zaccagnini e Andreotti avrebbero dovuto minacciare la rottura della politica nazionale (le dimissioni del governo, un dibattito parlamentare) piuttosto che far sacrificare un presidente Dc che essi sapevano corretto sia sotto il profilo costituzionale che sotto il profilo morale. In tal caso la responsabilità della scelta: mio sacrificio o rottura della politica di unità nazionale sarebbe toccata a me; ed io- che più volte avevo chiesto di dimettermi- non avrei esitato a scegliere la prima soluzione nell’interesse del paese: ma l’equivoco dimissioni- questione morale non si sarebbe potuto avere».

Le dimissioni

Quel 15 giugno Andreotti e Zaccagnini tornano sul colle. Le parole del Presidente che sta per dimettersi nel suo racconto: «Il colloquio fu imbarazzato e triste, dominato da un senso di impotenza e di fatalità. Ascoltavo Andreotti con un atteggiamento ormai di rinunzia. Ma il tono era tesissimo. “Io avevo detto che ero disponibile a dimettermi. L’ultima volta che l’ho ripetuto a te, Zaccagnini (e Zaccagnini annuì) non mi sarei fatto pregare. Ma così… Siamo stati di un’imprevidenza che ha dell’inverosimile... Fino a ieri secondo voi il quadro teneva…”». Leone prostrato, «il mio viso era scavato da antichi travagli. Gli occhi si erano rimpiccioliti sotto le lenti…». Dice solamente: «Che resta da fare? Subito o domani?». Andreotti gelido e realista: «Non credo convenga attendere che si scateni un altro uragano di polemiche. Si rischia di compiere il gesto in condizioni ancora peggiori». «Tornai dietro la scrivania, guardai negli occhi i miei due interlocutori e dissi con voce piena di emozione: «Non avrei mai pensato che accadesse così… È terribile. È terribile…».

Il discorso televisivo

Quella sera, in un composto e responsabile discorso televisivo, il Presidente annuncerà al paese le sue dimissioni. Saragat definirà “calunnie” la campagna contro Leone, Francesco De Martino dirà: «Non ho mai creduto alle accuse contro Leone», Paolo Bufalini ammetterà: «A me non risultò mai nulla contro di lui. Infatti il Pci non si associò alla campagna di stampa che lo aveva preso di mira». E il suo successore, Sandro Pertini, gli dedicherà nel discorso di insediamento, una definizione, coraggiosa anch’essa: «Il mio saluto al senatore Giovanni Leone che oggi vive in amara solitudine». «Amara solitudine», non si poteva dare definizione più felice della condizione di un uomo che non si imbarazza a dare indicazioni stradali a un viandante smarrito.

Le parole di Mattarella

In un’ importante cerimonia svoltasi al Quirinale tre anni fa il Presidente Mattarella disse su Leone parole importanti a partire dalla vicenda Lockheed: «Venne fatto in maniera ignobile il nome di Giovanni Leone, pur sapendo come fosse del tutto estraneo alla vicenda, ed ebbe inizio una stagione di tentativi di delegittimazione che sarebbe culminata in attacchi serrati e sistemici alla figura del Presidente della Repubblica».

Bisaglia e Pecorelli

Poco prima di lui, quel giorno, il Professor Giovagnoli aveva rivelato, con grande sorpresa dei presenti, che gran parte del materiale accusatorio contenuto nel libro di Camilla Cederna contro Leone «era stato fornito da Mino Pecorelli». Quel Pecorelli del quale Leone dice, in un suo appunto, che riceveva «mensilmente 20 milioni da Bisaglia… Non posso dire che egli (Bisaglia, ndr) istigasse il ricattatore ad agire contro di me; ma è evidente che finanziare il mio costante calunniatore significava non solo sostenerlo economicamente ma anche dargli un’implicita adesione».

La lettera di Bonino e Pannella

Anche in ragione di questo clima mefitico mi sembrano importanti le ulteriori parole contenute nella lettera di Bonino e Pannella: «Le siamo grati, anche, perché da ormai quasi tre lustri i fatti si sono incaricati di provare quanto la sua Presidenza della Repubblica fu sul piano delle formali, doverose responsabilità, assolutamente rispettosa della Costituzione e delle istituzioni, in un Paese nel quale il tradimento della legge fondamentale, della lealtà istituzionale, la violazione del diritto e dei diritti, ogni usurpazione possono impunemente affermarsi, e si affermano, proprio a partire dai massimi vertici dello Stato».

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