MARCO FOLLINI: «I VERI GENITORI DEL PORCELLUM? BERLUSCONI E CASINI. E QUELL’INCONTRO IN CUI CIAMPI MI DISSE “E IO CHE POSSO FARCI?”»

S ono due vecchie lettere. Marco Follini le estrae dalle sue memorie e solleva la polvere su una vicenda che diciannove anni fa cambiò la storia politica, lo portò a dimettersi da segretario dell’Udc e lo indusse a interrompere un sodalizio che durava dai tempi del movimento giovanile della Dc. «Il Porcellum fu tenuto a battesimo da Roberto Calderoli, ma i veri genitori furono i quattro evangelisti della maggioranza di allora. Silvio Berlusconi e Pier Ferdinando Casini più di tutti». Algido come può mostrarsi solo chi è educato a custodire i propri sentimenti, con le due lettere Follini fornisce una diversa ricostruzione degli eventi che nel 2005 portarono alla nuova legge elettorale. Una legge che, a suo dire, «consegnò i pieni poteri ai leader dei partiti. Ridusse i parlamentari a figli di n.n. costretti all’obbedienza. E mise molta benzina nel serbatoio del populismo».

È noto che il Cavaliere, all’epoca presidente del Consiglio, avesse minacciato la crisi di governo se la riforma non fosse stata approvata. Ma non era il solo a voler realizzare quel disegno: secondo Follini aveva al fianco l’allora presidente della Camera, il suo (ex) amico. «Quando si cominciò a parlare del progetto, la mia prima reazione fu di incredulità più che di scandalo. Quella legge giungeva al termine di una lunga contesa politica, durante la quale l’Udc aveva proposto le primarie per la scelta del candidato premier del centrodestra. Noi contestavamo la tesi che la richiesta fosse un atto di lesa maestà verso Berlusconi. Si potrebbe dire che propugnavamo per l’alleanza un sistema repubblicano e non più monarchico. Berlusconi viveva tutto ciò con fastidio, anche se era chiaro che a quei tempi le primarie le avrebbe vinte lui».

I SEGRETI DEL POTERE

Claudio Signorile: «Vi racconto perché gli ostaggi americani in Iran non furono liberati subito» Arturo Parisi: «Così affossarono Prodi nel ‘98. Il pranzo segreto per “tenere” Rifondazione, poi vinsero Bertinotti e il patto D’Alema-Marini» I ricordi di Luigi Zanda: «Cossiga e i misteri italiani da Gladio a Moro, agli Euromissili. E Mosca chiamò Berlinguer»

Il Cavaliere si oppose alla vostra richiesta.«In realtà mostrava una certa astratta disponibilità. Ma quando si cercava di arrivare al punto, sembrava Bertoldo alla ricerca dell’albero delle fragole. Il contenzioso, che durò quattro anni, produsse di riflesso una legislatura turbolenta. E al termine, la legge elettorale rappresentò l’esito paradossale e debosciato di quella controversia. Formalmente il nuovo sistema di voto si saldò attorno alla nobile firma del ministro leghista per le Riforme istituzionali, che gli diede una prosa e un nome. Calderoli si vantò persino di esserne stato l’ispiratore. In verità la legge fu frutto del patto tra tutti i leader, che consentì a Berlusconi e Casini di tornare ad abbracciarsi».

Provò a dissuadere Casini?«Ne parlammo più volte, non in modo particolarmente animato. Finché mi resi conto della perversa inesorabilità che c’era nel meccanismo messo in moto».

Avrà cercato sponde nell’alleanza per fermare il disegno.«Umberto Bossi e Gianfranco Fini partecipavano senza particolare passione al tema della riforma, che per me era invece inaccettabile. Nel metodo perché cambiava le regole del gioco a pochi mesi dalle elezioni. Nel merito perché il sistema di voto proporzionale con liste bloccate e premio di maggioranza violava il principio di rappresentanza. Ed era blindato. Non si accettavano nemmeno delle modifiche come l’introduzione delle preferenze o il divieto delle candidature multiple. Allora tentai un’altra strada».

Quale?«In quei giorni andai al Quirinale a trovare Carlo Azeglio Ciampi. Dissi confidenzialmente al capo dello Stato che erano in atto due operazioni: modificare le norme sulla par condicio e cambiare la legge elettorale. La prima mi sentivo di poterla fermare, l’altra no».

E Ciampi?«Con un sorriso dolce mi rispose: “E io cosa posso farci?”. A quel punto ritenni scostumato insistere. Era ovvio che non gradiva l’intervento sulla legge elettorale, ma non intendeva esercitare certe forme di moral suasion dissuasive adottate da altri presidenti della Repubblica, prima e dopo di lui. Ciampi è stato una figura che ha lasciato un’impronta profonda nel Paese, restituendo tratti di amor patrio che per decenni erano stati cancellati. Ma è sempre rimasto volutamente ai margini di qualunque manovra politica. Non mi restava che una carta. Anzi due. Una missiva e poi un gesto: le dimissioni».

È la storia delle lettere. «Da segretario dell’Udc mandai a Casini una lettera nella quale sostenevo che la forzatura sulla legge elettorale non avrebbe avuto successo. E che avrebbe deturpato il nostro profilo, smentito il lavoro di quegli anni, gettato disdoro sulla nostra storia. Mi rispose che era indignato perché nel momento in cui la sinistra lo attaccava, l’attacco più forte glielo portavo io».

Una divergenza netta.«Messa nero su bianco. Ricordo che la mia lettera era scritta al computer, la sua era vergata a mano su carta intestata “presidente della Camera”. A quel punto, piuttosto che perdere la faccia, decisi di perdere il posto. E gli riconsegnai quel partito a cui lui, un anno e mezzo prima, aveva consigliato di fare lista unica con Berlusconi e Fini. Le cronache dell’epoca riportarono due frasi fatte trapelare. La mia: “Ci siamo giocati un pezzo della nostra storia”. La sua: “Marco non ha capito che la legge elettorale è la battaglia della nostra vita ed è una nostra vittoria”. Su una cosa però aveva ragione lui».

E cioè?«La legge passò, perché i capi del centrosinistra fecero un’indignata e rumorosa opposizione. Ma solo di facciata. Contribuendo così a trascinare il sistema politico verso l’abisso. Loro pensavano di trarre vantaggio dalla riforma. Come lo pensavano nel centrodestra quanti immaginavano di essere gli eredi di Berlusconi, che però si dimostrò molto più lucido di loro: quella legislatura doveva rappresentare il suo ultimo giro, invece conservò il primato nel 2006 e tornò a palazzo Chigi nel 2008. Questa vicenda fa capire che l’eredità in politica te la devi conquistare, non puoi immaginare che ti venga consegnata per atto notarile».

Da quel momento non affrontò più l’argomento con Casini? «Inutile aggiungere parole e veleni. Non ho mai dimenticato che fu Casini a farmi eleggere la prima volta e che probabilmente senza il suo apporto non sarei entrato in Parlamento. Gli dovevo insieme gratitudine e dissenso. E poiché non volevo essere complice di questo disegno ma nemmeno un ribelle, mi chiamai fuori dalla prima fila sapendo che non vi avrei fatto più rientro».

Nessuno le espresse solidarietà?«Il giorno delle dimissioni ricevetti due telefonate: una di Ciriaco De Mita e l’altra di Francesco Cossiga. De Mita mi disse: “Non so se hai fatto bene o male, ma in politica bisogna seguire l’istinto. E se l’istinto ti ha portato a dimetterti, hai fatto bene a dimetterti”. Cossiga invece mi chiamò tutto giulivo: “Caro Marco, sei diventato una riserva della Repubblica”. Naturalmente stava riflettendo sulla sua autobiografia, non sulla mia».

E che ne è stato dell’antico rapporto con quello che nella Dc era considerato il suo alter ego?«Scegliere di sottrarmi allo scontro fu paradossalmente l’ultimo gesto di amicizia nei confronti di Casini. Di lì in poi non ne avrei fatti altri».

Freddo, ai limiti dell’efferatezza.«Le ragioni della politica sono più forti delle complicità personali. Per molti anni le circostanze avevano fatto di noi una coppia. Nel momento in cui finimmo di esserlo ci liberammo dall’equivoco di essere quasi la stessa cosa».

Ora è efferato e basta.«No, trasparente. Nella mia idea della politica non c’è mai un istinto che ti porta lontano dal ragionamento: non c’è nulla di animalesco, deciso cioè di pancia e di pelle. Per me la politica è testa ed esercizio del pensiero. (pausa) Forse è su questo che io e Casini abbiamo avuto qualche difficoltà».

Di difficoltà ne ha avute anche con Berlusconi, di cui per un breve periodo è stato suo vice al governo.«È un dettaglio di cui preferisco non parlare per il bene di Berlusconi e mio. Lui riteneva che lo odiassi, me lo confidò una volta Claudio Scajola. Ma non era così. Anni dopo volli andare a trovarlo, quando a palazzo Chigi c’era Mario Monti. Lo vidi provato e consapevole che la sua stagione si era chiusa per sempre. Gli dissi: “Come leader politico hai fatto molti errori, ma ti riconosco un’umanità tutt’altro che banale”. Fu un colloquio affettuoso che immagino gli abbia fatto piacere».

Ai tempi della trattativa sul Porcellum non provò mai a parlargli per fargli cambiare idea?«A quei tempi lui parlava con Casini».

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